domenica 13 settembre 2009

Pierre Schaeffer: Oggetto sonoro e riferimenti


Pierre Schaeffer, nei suoi studi sulla percezione dell'oggetto sonoro, distingueva quattro modalità d'ascolto, due soggettive e due obiettive:

Udire (ouir):
Percepire attraverso l'orecchio.
La forma più elementare della percezione attraverso la quale ascoltiamo, passivamente ed in modo del tutto soggettivo, suoni che non necessariamente devono essere decifrati.

Ascoltare (ecouter):
Ascoltare qualcuno o qualcosa attraverso un suono, allo scopo di identificare una sorgente, una causa, un evento.
Il suono è obiettivamente il mezzo di comunicazione di un evento.

Intendere (entendre):
Attraverso l'ascoltare (ecouter), la selezione di ciò che interessa estraendolo da ciò che si è sentito (ouir).

Comprendere (comprendre):
Decifrare obiettivamente un messaggio, attraverso il suono come segno e come linguaggio espressivo.


"Io ti ho sentito (ouir), ma non ho ascoltato ciò che dicevi (ecouter), e quindi non ho capito ciò che mi volevi dire (comprendre), non avendo decifrato ciò che ho sentito (entendre)"

Questa frase sintetizza i quattro diversi processi di acquisizione.


Appare certa ed inequivocabile quindi, la differenza tra il semplice e soggettivo udire ed ascoltare,, dalla finalità dell'intendere e del comprendere la realtà del contenuto, ovvero l'obiettivo oggetto sonoro.

Il nostro cervello analizzando in continuazione, giorno e notte, ogni tipo di stimolo acustico (udire ed ascoltare), trattiene in modo selettivo ed utilitaristico quelli che al momento ritiene importanti, ma contemporaneamente opera un continuo processo di riconoscimento al fine di identificarli (intendere e comprendere).

Il confronto continuo degli stimoli acustici con le esperienze e gli eventi associati ad essi ed acquisiti nella memoria, determina la capacità evocativa del cervello, in grado di ricollegarsi ad un evento trascorso e trasportarci quindi in un'altra dimensione al semplice prodursi di una nota o un suono, così come potrebbe succedere con un sapore, un profumo o un'immagine.
Tanto più espressivo e coincidente con quello in memoria sarà il suono riprodotto, tanto maggiore e più spontanea la capacità evocativa della riproduzione.

Ascoltando il suono di un violino, il cervello lo confronterà con quello che in memoria ha registrato come "suono del violino" e, se i due coincideranno, riconoscerà come "violino" lo strumento che sta suonando.

Non è detto, però, che in memoria esista il suono naturale e realistico dello strumento!

In assenza di una catalogazione del suono originale, il cervello potrebbe comunque avere acquisito un riferimento attraverso surrogati,  ad esempio, un mediocre o eccellente impianto di riproduzione, o tramite la sintesi di diverse riproduzioni ascoltate in varie occasioni.

Acquisito il suono degli strumenti musicali attraverso una riproduzione, per quanto paradossale non è improbabile che, ascoltando gli originali, non li si riconosca come reali a causa della dissonanza cognitiva prodotta dall'aver catalogato in memoria il loro suono riprodotto, certamente diverso dall'originale.

Sottoponendo continuamente al cervello errati modelli sonori di riferimento e supportandoli ulteriormente attraverso costruzioni mentali, si finisce spesso col non accettare o non riconoscere la qualità sonora di sistemi migliori, di strumenti migliori, di registrazioni migliori ed in genere di soluzioni d'ascolto migliori, qualora questi  non risultassero acusticamente o culturalmente conformi alle costruzioni mentali acquisite in precedenza

L'errata acquisizione di un riferimento e la relativa costruzione di un abito mentale a supporto, potrebbero anche culminare, per dissonanza cognitiva, nel paradosso del rigetto dell'evento originale.

sabato 5 settembre 2009

Verità scientifica e credenze collettive


Charles Sanders Peirce

http://it.wikipedia.org/wiki/Charles_Sanders_Peirce


Il solo obiettivo della ricerca è lo stabilirsi di un’opinione.
Si potrebbe supporre che questo non basti, e che noi andiamo in cerca non meramente di un’opinione, ma di un’opinione vera.
Ma se mettete alla prova questa supposizione, la troverete senza fondamento: infatti, appena raggiungete una salda credenza, siete perfettamente soddisfatti, sia che la credenza sia vera, oppure falsa. [...]
(C. S. Peirce, Il fissarsi della credenza, in C. S. Peirce, Le leggi dell’ipotesi, a cura di M. A. Bonfantini, R. Grazia e G. Proni
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Abitualmente ogni fenomeno che non trova una spiegazione logica e certa, viene catalogato secondo l'ipotesi scientifica che più si avvicina alla diagnosi del problema.

Questa ipotesi spesso indimostrata e molto spesso indimostrabile, serve a placare il dubbio che per natura è irritante in antitesi alla certezza che corrisponde invece ad uno stato di riposo della mente.

L'attività mentale per natura crea l'irritazione del dubbio che deve essere spenta con una credenza.

Il risultato di un'indagine culmina quindi con la formazione di un'opinione.

Non importa che questa opinione sia vera, l'importante è che venga ritenuta tale.

La verità coincide quindi con quello che viene creduto in ogni momento.
 

Charles_Sanders_Peirce individuò quattro metodi per placare il dubbio, spegnere l'irritazione e raggiungere una credenza.


Il metodo della tenacia:

Il primo, quello della tenacia, è quello di risolvere i nostri dubbi con la prima risposta immaginabile e poi attenersi incrollabilmente ad essa respingendo ogni possibile alternativa e chiudendo gli occhi davanti ad ogni fatto che possa contraddirla.
Questo metodo, afferma Peirce, è semplice e può apparire a prima vista sciocco, ma contiene molti elementi positivi.
Quest'uomo si assicura a buon mercato un piacere che non sarà seguito dalla benchè minima delusione, non si pone il problema di essere razionale e infatti parlerà spesso della debole ed illusoria ragione umana.
Peirce suggerisce di lasciarlo pensare come vuole.

 
Il metodo dell'autorità:

La tenacia viene messa in questione quando l'individuo, chiuso nelle sue convinzioni si rende conto che altri individui possiedono altre credenze.
Sorge quindi, al fine di placare il dubbio, l'esigenza di creare e fissare credenze comuni a tutti gli individui.
Mezzi di comunicazione ed ideologie sono al servizio di questa finalità per assicurare la pace sociale, ma a lungo termine anche i più fedeli saranno scossi dal contatto con altre credenze e ricomincerà l'irritazione del dubbio.

 
Il metodo della ragione a priori:

Coltivando il dubbio, gli uomini arriveranno a desiderare che la fissazione delle credenze non sia ne arbitraria ne forzata, ma sorga naturalmente dalla discussione e dalla libera interazione delle opinioni.
Questo metodo, benchè più evoluto, è secondo Peirce comunque un metodo fallimentare in quanto non si fissano le credenze realmente coerenti con l'esperienza ma quelle che collettivamente si è portati a credere.
Si confonde la realtà con quello che conviene credere, rasssicurati in questo dal consenso umano.

 
Il metodo scientifico:

Ciò che è reale è indipendente dall'opinione.
La scienza è l'unico metodo in cui la credenza non è prodotta soggettivamente ed arbitrariamente, ma è un'adeguazione dell'intelletto all'oggettività.
La conoscenza prodotta dalla scienza è mutevole ed imperfetta, ma si evolve necessariamente verso la verità.
L'opinione è quindi sostituita da ciò che è reale.

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martedì 25 agosto 2009

Misura della natura, Natura della misura





Often her content is nature taking over what she calls "human constructs.

What could be more satisfying than that, seeing nature recuperate from humans?
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I Grandi Maestri dell'Esoterismo (rarissimi, invero, in mezzo ad un "mare" di ciarlatani...ed anche questo è un bene, perchè è richiesta la capacità di discernimento) di tutte le epoche hanno speso diverso tempo, cercando di far intendere ai più la "famosa frase": "osserva la Natura".


L'osservazione della Natura avviene attraverso i sensi.
L'uomo non ha a disposizione altri mezzi, per interagire, per indagare, per conoscere...

Gli input sensoriali vengono poi elaborati dal cervello.

Quindici o venti anni or sono (non saprei più indicare precisamente quanto tempo sia passato, chiaramente...), ricordo di aver intrapreso una discussione con uno di quegli amici "artisti" (di cui sopra parlavo).

Succedeva spesso al "piccolo caffè" (e succede ancora), denominato il "caffè degli artisti" (e per questo magari "evitato" da una certa "cerchia", che preferisce gli altri bar, più "classici", più largi, magari anche molto più "chic" o "trendy").

Si parlava di colori.
Ed io, fiero, sfoggiavo l'atteggiamento "tecnicista" (simile a quello che si osserva sovente nell'ambito hi-fi, ieri come oggi).

"I colori non esistono", dicevo...
Sono radiazioni elettromagnetiche.
Lunghezza d'onda, frequenza...
L'uomo le traduce e le vede come colori, ma è un artifizio, un inganno.
La realtà, la fisica, dicono che sono radiazioni elettromagnetiche.
Perfettamente misurabili. Non si discute.
Il resto è falsità, inganno, suggestione, interpetazione...

"Pipino dopo la valle" mi rispose:
"non solo i colori esistono, ma possiamo anche miscelarli, per ottenere tonalità e sfumature praticamente infinite".

A quel punto mi fu chiaro che non avesse capito.
Parlavo di scienza, io...di fisica!!!
E quello invece si raffigurava i suoi bei tubetti di colori, per dipingere.
Era ovvio che avesse torto. Magari per ingoranza o per "deformazione professionale".

Così oggi ragionano certi nostri scienziati dell'hi-fi.
Con la stessa "certezza scientifica" che avevo io a venti anni.

Fortunatamente c'è stata evoluzione, in me...

Ripensandoci oggi, è chiaro che "Pipino dopo la valle" non avesse concezione di alcune "certezze" elementari della realtà fisica.

Però...

...però questo non inficiava minimamente il fatto che avesse ragione.
Cosciente o meno che fosse, di certi ragionamenti.

L'unica realtà che l'uomo può conoscere è quella dovuta alle informazioni che arrivano dai sensi ed alla loro successiva elaborazione del cervello.

La mera realtà fisica, fatta di frequenze dello spettro "visibile" o "invisibile", non è conosciuta (e non può esserlo) come tale.

L'unica realtà "vera" (cioè conoscibile, "vivibile", creatrice di emozioni e di reazioni) è fatta di colori.

Quando mio figlio mi porta un telecomando, perchè non funzionante, una delle prime cose che verifico è l'emissione da parte del led.

Led infrarossi...non riusciamo a vederli.

Ho la fotocamera digitale sempre a portata di mano. La accendo e...miracolo!
Nel display LCD si vede il led, che si accende.
La fotocamera è sensibile anche all'infrarosso.

Si, ma..."che colore è" l'infrarosso?
Il display lo mostra bianco.

Perchè proprio bianco?

Per la realtà fisica (quella che non conosciamo e non possiamo conoscere) quella radiazione non è così dissimile da quella della cosiddetta luce visibile.

Per l'uomo, invece, c'è una differenza sostanziale.

A parte questo, quale realtà andrà a tentare di rappresentare (a mo' di "icona", o fac-simile, o "quel che volete voi") quella fotocamera, dal momento che è sensibile anche ad una radiazione a noi "estranea" (almeno nella percezione visiva)?

Ai tempi che furono, la tecnica fotografica in bianco e nero poteva vantare pellicole con diversa sensibilità cromatica.

Ortocromatiche, pancromatiche...
Forse che per alcune di esse si notava qualche "mancanza"?
Qualcuna di esse è mai stata considerata meno "hi-fi"?
Eppure ad una di quelle pellicole manca un bella porzione di spettro "fisico" delle frequenze...
L'altra annovera ciò che non dovrebbe...

"Risposta in frequenza"...stesso discorso che per i nostri "scienziati" (dal fare "ottocentesco").
Essi la "misurano" e la vogliono "completa" (rispetto a cosa? alla sensazione umana che gli strumenti di misura non conoscono?) e "lineare" (de che??).

La vogliono "estesa".
Ritenendola "condicio sine qua non" per un ascolto (termine con il quale si "confondono", rispetto alla riproduzione della musica ed alla sensazione) "realistico".
Un po' come per la presunta dinamica, o la "pressione", realistica...

Realistico...
Per soddisfare una realtà fisica che non conosciamo?
(Cosa ci importa degli aspetti estranei, perciò inutili?)

Piuttosto che indagare le molteplici impicazioni dell'unica realtà conosciuta, che è quella sensoriale, emozionale ecc. ?

La realtà che conosciamo è molto diversa da quella fisica...
Bisogna studiare.

Molto.

Non lo fanno?

Va bene!



Mi rendo sempre più conto che esiste una sorta di profonda confusione, ad ogni minimo accenno a “certe” questioni.
Quando si dice che certe misure non possono essere utili, data la presenza dell'uomo nel sistema, molti interpretano questa affermazione come se fosse un tentativo di "opporsi" alla tecnologia, alla scienza.
Loro si ritengono "scienziati", difensori della tecnologia e del progresso ed "accusano" di anti-scientificità, di misticismo, di filosofia chi asserisce che certe misure siano inutili.
In realtà il vero scienziato è quello che riesce a comprendere la Natura delle varie fenomenologie e farne la relativa analisi.
Mi spiego: Molti sono abituati a vedere "calcoli" e "misure", per esempio nella progettazione e realizzazione di un palazzo, e quindi confondono quella specifica applicazione con altre.
Sono portati a pensare che il "modus operandi" scientifico, specifico di quel settore (come di tanti altri) sia il metodo universale della scienza.
Perchè, invece, non lo è?
Abbiamo detto che la riproduzione musicale coinvolge la sensorialità umana. La musica è nata ed esiste in funzione dell'uomo.
In una stanza dove è acceso un impianto stereo ed una lampada, ma non vi è presenza dell’uomo, non esistono nemmeno musica e colori.
Giacchè questi termini, queste sensazioni, sono riferiti all’uomo, si creano all’interno dell’uomo, del suo cervello.
Abbiamo anche detto che la realtà fisica (di cui si occupano le ben note leggi fisiche) non ci è nota, almeno "direttamente".
L'uomo infatti conosce solamente la realtà, così come essa è presentata dai propri sensi e dalla relativa elaborazione mentale di quelle particolari informazioni (sensoriali).
Lo studio della realtà fisica è stato effettuato, nei secoli, attraverso delle indagini spesso esterne all’uomo.
Un microscopio come un oscilloscopio, per esempio, sono delle “protesi”.
Esse permettono di studiare ciò che l’uomo non può conoscere per mezzo della propria sensorialità, ed ecco, per esempio, lo studio dei materiali (“vediamo” forse noi la percentuale di carbonio nell’acciaio attraverso gli occhi, o i polpastrelli o il naso?) e tutto il resto.
Questo ci permette di conoscere e di agire nel mondo fisico e fin qui spero che siamo d’accordo.
Per costruire una casa occorrono calcoli e misure ma uno degli scopi di quella struttura sarà quello di cercare di rimanere in piedi.
E “cercherà” di farlo sia quando l’uomo è presente, sia quando non lo è.
Diverso è il discorso dell’usar misure e calcoli quando lo scopo finale ritorna ad essere insito nell’uomo stesso.
Che si tratti di gusto (cucina) di immagine o di musica (o quant’altro) poco importa, si torna in un contesto sensoriale, cioè nella realtà percepita ed interpretata dall’uomo che è diversa dalla realtà fisica.
È perfettamente sensato studiare la realtà fisica dei suoni o della luce, per conoscerla.
Così come è insensato ritenere che realtà fisica e realtà percepita coincidano.
E ciò è invece quello che purtroppo ritengono i nostri scellerati tecnicisti (attenzione, non scienziati…tecnicisti).
Se non sono capaci di fare questa elementare distinzione, cosa vogliamo pretendere??
Li vedi girare coi “fonometri”, li vedi pubblicare le curve.
Ottimo esercizio, direi…esercizio che vale per quel è: un tentativo di illustrazione della realtà fisica che nulla però ha a che vedere con la realtà percepita.
Quelle son frequenze, la realtà percepita è musica.
Si dovrebbe convenire che per avere una qualche pretesa di occuparsi di riproduzione musicale, non si può prescindere dallo studio della sensorialità, della elaborazione del cervello, di come la musica si crea all’interno del sentimento umano ecc. ecc.
Si continua invece a parlare di decibel, di frequenze, di realtà fisica, e si ha pure la pretesa (spesso espressa in modo arrogante) di essere dalla parte della scienza.
Mai visto un pittore misurare la lunghezza d’onda dei suoi colori, prima di dipingere.
Né i “falsari” o i semplici appassionati per “riprodurre” una qualsiasi opera.
Provate a proporlo…
Il blu rilassa, il rosso eccita, il verde è riposante...
Dipingete di blu o di verde la camera da letto.
Riusciamo a spiegarlo con le misure?
Riteniamo forse che sia antiscientifico che i negozi siano pieni di lampade colorate, con tanto di istruzioni sui loro effetti?
Si gira col fonometro, dicevo.
Pur essendo coscienti che l’intensità percepita non ha correlazioni con il livello di pressione arbitrariamente misurato in un punto, in un dato momento, in un dato luogo.
Riesce forse l’uomo a dire che “lì, in quel punto, ci sono 123db?”
La mattina il suono di una sveglia può sembrare assordante.
La sera un concerto può essere piacevole.
La stessa musica è composta, è costruita per creare sensazioni di “forza” o di “sussurro”.
Una melodia ascendente può apparire dinamicamente crescente.
Eppure per il fonometro non lo è.
Quando la scuola coreana insegna ai bambini piccoli l’arte musicale, ho notato che al pianoforte spesso viene indicato come “forte” un suono grave, e come “piano” un suono acuto.
In effetti il pianoforte rende questa impressione, quando invece un violino rende l’effetto opposto (alcuni acuti vengono percepiti come “esuberanti”) così come un flauto.
Tutte le misure, invero, avrebbero già grossi problemi a tentare di riprodurre il suono fisico (viste le variabili in gioco), e possono servire solamente a scopo di studio di quell’ambito.
Nulla hanno a che vedere con la percezione e la musica.
Mi meraviglio che questo semplice assunto scientifico, non venga compreso.
Mi meraviglio ancor più che quasi nessuno si prenda la briga di studiare a fondo il mondo della percezione, cioè l’unico vero ambito che a noi interessa, per poi applicarne i principi.
Le poche volte che se ne scrive, i "nostri prodi" piombano fieri nella discussione a cercare di minimizzare o ad ostentare conoscenze in merito, citando “questo” o quel “testo”…
Cose note…scrivono.
“Cocktail party”, “curve isofoniche”, Fourier e chi me ha più ne metta.
Però poi dimostrano di non far tesoro nemmeno di quel poco che citano.
Tornano infatti, lesti (e come se nulla fosse), a (s)ragionare coi decibel, con le “curve” e tutto il resto.
Mai vista tanta ipocrisia…mascheramento, questo (s)conosciuto…
Già questo basterebbe a comprendere la immensa differenza tra il suono fisico e la musica percepita, e l’inesistenza di relazioni precise tra queste due realtà.
Il woooooofer da 48 pollici scende a 12HZ…
Lo dicono le misure!
E tutti i “danni” che fa??
C’è infine da sottolineare che cento anni di altoparlanti hanno assuefatto gran parte dell’umanità.
Perché si sentono passare auto che vanno a "reazione" di woofer?
È anche una questione culturale, ormai.
Se la società ti offre questo modello, è chiaro che esso diventa la norma!
Ci siamo abituati al suono dell’altoparlante.
Ci siamo abituati ai bassi sullo stomaco, ai concerti di piazza a tutto volume…
C’è chi esce dal cinema (visto che è stato nominato) con una soddisfazione immane.
Riportando, ancora una volta, l’esempio del bicchiere che si rompe, mi chiedo: “ma fa davvero quel terremoto (nella realtà umana, l’unica conosciuta perchè l’unica percepita) un bicchiere che si rompe?”
Eppure quasi a nessuno viene in mente questa semplice obiezione.
Ormai sono diventate questioni “slegate”.
Ecco spiegati certi impianti stereofonici, che piacciono a molti.Va bene anche questo, ma non mi si venga a dire che tutto questo “sistema” abbia qualcosa a che fare con la riproduzione della musica.

Fabio Ferrara (Dueeffe)

sabato 22 agosto 2009

Oh, che armonico fracasso....


Giampaolo Ghisetti, Concertino.

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Amplificato...
Un concerto che già contiene l'artifact nella sua estensione.

Perchè si amplifica?
Forse s'è iniziato per far fruire l'evento ad un pubblico "massivo"
Marketing?
Chiaro, la chitarra elettrica va amplificata.
Ma la voce e la batteria?
In un "locale" non servirebbe...

Hanno iniziato ad amplificare, ad aumentare il pubblico...grandi spazi all'aperto.
Si alza il volume. Più si alza e più la gente sembra contenta...

Certi concerti hanno iniziato ad esser codificati in quel modo.
Per convenzione, naturalmente.
Il disco costruito in studio (Pink Floyd, per esempio) non ha parentela col concerto "live"...

Cosa andremmo a riprodurre?
Il disco costruito in studio ad un livello prossimo a quello percepito al concerto live, pur sapendo che non sono "parenti"?

Oggi si amplifica tutto...
Vai a sentire l'MPB, Joao Gilberto, Caetano Veloso...
"'na voce 'na chitara e un po' de luna".
Deve essere amplificato l'evento?
Certo. cinquemila persone ad ascoltare.

Si ma se viene Harry Bicket a suonare il clavicembalo?
Stanza adatta...nessuna amplificazione.

Non dovrei forse pretendere un luogo adatto anche per Joao Gilberto e la sua chitarra?
E poi la gente, dove la mettiamo?

Ah...ho capito...marketing.
Harry Bicket si accontenta di una serata per cento persone che pagano 20 euro l'una.
Caetano Veloso vuole cinquemila persone che pagano 40 euro l'una.

Non puoi dire a Veloso o a Gilberto di far musica in modo serio.
Di pesentarsi con la chitarra in un luogo consono, e di accettare duecento persone per serata.

Siamo alla buffonata...
La gente non pretende...anzi adora la buffonata.

Canta un tenore al Teatro Pagani, magari accompagnato dal pianoforte, non serve amplificazione.

Viene al Pagani un intero coro Gospel, ed amplificano anche il lampadario.



A fine concerto sono andato lì e ho detto: "ma che *azzo vi amplificate" che vien fuori un massacro.

Ma la gente applaude.

Alzi il volume applaude.
Amplifichi ed applaude.
Fai Mozart...applaude.
Fai Verdi: applaude!
Fai il gospel amplificato...applaude.

La gente applaude.



Fabio Ferrara (Dueeffe)

domenica 16 agosto 2009

Realtà percepita e realtà esterna alla nostra mente



Tutti ammetteranno che né i nostri pensieri né le nostre passioni né le idee formate dalla nostra immaginazione esistono senza la mente. Non meno chiaro è per me che le diverse sensazioni, o idee impresse nei sensi, in qualunque modo si combinino (cioè, qualunque sia l’oggetto che formano), non possono esistere se non in una mente che le percepisca… Affermo che questo tavolo esiste; vale a dire, lo vedo e lo tocco. Se, stando fuori del mio studio, affermo la stessa cosa, voglio dire soltanto che se stessi qui lo percepirei, o che lo percepisce qualche altro spirito… Parlare dell’esistenza assoluta di cose inanimate, senza relazione col fatto che esse siano o no percepite, è per me insensato. Il loro esse è percipi; non è possibile che esistano fuori delle menti che le percepiscono […]
Ma, si dirà, niente è più facile che immaginare alberi in un prato o libri in una biblioteca, e nessuno presso di essi che li percepisca. In effetti niente è più facile. Ma, vi domando, che cosa avete fatto se non formare nella mente alcune idee che chiamate libri o alberi ed omettere al tempo stesso l’idea di qualcuno che li percepisce? Voi, intanto, non li pensavate? Non nego che la mente sia capace d’immaginare idee; nego che gli oggetti possano esistere fuori dalla mente.
(Berkeley, Principles on Human Knowledge)


George Berkeley


REALTA' PERCEPITA E REALTA' ESTERNA ALLA NOSTRA MENTE

L’idealismo, ma non solo quello dei secoli recenti, anche dei platonici o di Parmenide, è dell’idea che la percezione sensitiva sia l’unico fondamento della nostra conoscenza, che non abbiamo modo di distinguere la realtà dall’insieme degli stimoli che da essa pervengono, e, secondo me, questa tesi è inconfutabile. Perché non possiamo emanciparci dai sensi, non possiamo figurarci un’esperienza dell’universo esterno non mediata da dei conduttori di segnali, e anche se potessimo far uso di sensi nuovi e differenti da quelli che possediamo, il problema non si risolverebbe ma verrebbe solo traslato.

Ci sono però delle componenti della realtà che devono indurci a non chiudere il discorso con quanto diceva Berkeley nella citazione sopra, e che indirizzano ad una analisi adeguata – cosa che esula dal mio tentativo di spunto.

In primo luogo l’idealismo berkeleyano non nega la realtà esterna, casomai nega la possibilità di discernere una possibile materia esterna da noi stessi da qualcosa che ha luogo nella mente; è una prova della nostra mancanza di verifica della veridicità dell’universo esterno, di una sua oggettività universale, ma non che questo debba essere necessariamente solo metafisico e mentale, e non solo oggettivo e indipendente al senziente. Definisce dei limiti alla nostra possibilità di percezione della realtà ma non dei limiti della realtà stessa.
Di più, la nostra mente non è esente da simili perplessità sull’esterno: il processo di “sfiducia” negli strumenti assegnateci dalla corporalità, i cinque sensi, può essere esteso in una regressione fino alla nostra mente ed alla nostra consapevolezza ed essenza pensante; mi spiego: io percepisco tramite la vista, la presenza di un tavolo, e lo tocco e ne posso sentire la solidità.
Questo è comunque, prima di ogni altra cosa, flussi elettrici tra il sistema nervoso e le parti del cervello preposte all’elaborazione – che si formano dai polpastrelli e seguendo le linee di confluenza nervosa trasmettono dei dati alla mente -, io non so se il tavolo esiste.

Berkeley non ammette un mondo esterno ma crede nella realtà dello spirito.

Non sono tanto convinto di questo, perché anche solo il pensiero che io sto articolando in questa pagina è frutto di consapevolezza di un prima e un dopo del ragionamento, ma questa consapevolezza potrebbe essere solo illusoria, così come l’affidabilità dei polpastrelli o della retina. Io credo di esistere e di avere un passato, ma ciò è arbitrario potere del mio cervello – o se preferite, più correttamente, della mia mente.
Posso essere convinto di avere un passato alle spalle di consapevolezze (memoria), ma queste potrebbero del tutto essere frutto di quest’istante nel quale ne percepisco il ricordo.
In breve il passato, il mio passato che mi rende identità definita e peculiare, potrebbe non esistere, potrebbe essere un’invenzione, contemporanea a questa battitura di testo, della mia mente che però mi convince, perché non posso esistere al di là di essa, che io sono questo e voi siete qualcos’altro.

Sto parlando di considerazioni fortemente anti-intuitive e palesemente assurde, ma non smentibili argomentativamente con tanta facilità, bensì rese trascurabili dal blando “buon senso”; ma ci possiamo fidare del buon senso?
Quali sono le sue basi logiche, a parte la consuetudine?

La sfiducia nei sensi può essere inclusa nel comprendere anche una diffidenza tra la mia mente ed il mio spirito, e niente può essere considerato effettivo.
Il ricordo potrebbe essere uno strumento di apparato di potere della nostra mente, quindi io potrei non esistere che da adesso, e solo in queste frazioni di secondo che bastano allo specious present degli psicologi, il presente stretto che mi da la consapevolezza d’essere vivo.
Il regresso della sfiducia è applicabile ai sensi così come a ciò ch’è considerato indipendente, in una certa misura, dal mondo esterno.
La logica ed il raziocinio noi li consideriamo come un fatto assodato e probatorio, così come utile e sottoponibile a riscontri e dialettica. Ma la logica segue degl’assiomi di base nella quale, dati per scontati dualità come vero-falso, credibile-poco credibile, giusto-non giusto, noi creiamo delle teorie che persuadono o vengono considerate erronee.

Il problema è che la logica si basa, prima di ogni altra cosa, sulla sensazione di giusto e sbagliato, sulla sensazione di vero e falso.

Se qualcuno mi dice: tu sei un cavallo, io so che questa affermazione non è esatta. Ma quello che accade, in realtà, è che io sento la sensazione che tale assunto sia falso, questa sensazione è derivata da un sentore conscio ed inconscio, dai ricordi della mia esperienza del mondo, dal mio modo di giudicare le asserzioni. Ma questo è frutto della mente e della sua arbitrarietà rispetto a qualsiasi impressione che io possa avere di essa che sia in ogni caso onesta con se stessa – me stesso.

Come so che la mente mi dice sempre il vero? Su che basi mi posso fidare di componenti della mia mente quali memoria, giudizio, cognizione?
I ricordi, e perciò l’esperienza del mondo, potrebbero essere fittizia ricostruzione e sensazione che io percepisco in questo singolo istante, e improntata dalla mente per costruire l’assodato che concepisco. Ma non abbiamo la certezza della sincerità della mente, dell’affidabilità della mente, così come non ce l’abbiamo dei cinque sensi. La logica è un prodotto che la vita ci ha insegnato essere affidabile per trarre delle conclusioni e dei dati di fatto, ma potrebbe essere illusorio – e ingannevole - come tutto il resto.


Un’ultima cosa.
Anche tenendo conto di tutte queste sfiduce possibili, ci sono dei piccoli (?) segnali che ci inducono a pensare che la realtà possa essere esistente al di là del nostro pensiero e percezione.
Abbiamo già detto che l’idealismo non confuta la veridicità dell’universo esterno, ma soltanto l’opportunità per noi di darne una prova esatta e indiscussa.
Quindi è possibile crederci come non farlo, e non abbiamo molti elementi per orientarci con competenza decisiva.

Uno scienziato che si occupa ogni giorno, sia nel pensiero che nelle azioni (che magari sono la stessa cosa) di fatti empirici e materici, intuitivamente, è preso dal ritenere che la realtà esterna sia un dato inconfutabile: una pietra esiste non perché la percepiamo, ma perché è atomica e stabile e continuativamente osservabile, con coerenza nel tempo.
In altri termini, pur se tutto quello che sappiamo dell’esterno sono il risultato di elaborazione di elettroni che ci arrivano dai sensi, queste elaborazioni sono analoghe e congruenti nel tempo.

Alla soluzione elaborativa dell’insieme di dati elettronici che equivalgono a “matita”, questi si ripetono e non sono casuali nelle successioni dei riscontri: indi c’è coerenza, continuità e disposizione a una realtà che, non essendo disordinata e caotica nei dati pervenutici, lascia credere che anch’essa sia coerente e credibile (sempre se i ricordi sono qualcosa di realmente riconducibile ad eventi passati e non inganni estemporanei del presente sulla mente).
Lo scienziato è più suscettibile all’osservazione che la uniformità dei segnali provenienti dai sensi, “nell’insieme continuo di percezioni che formano la mente” (diceva Hume), è un dato tanto comune quanto lampante.

Esiste quindi una coerenza delle percezioni, la stessa coerenza che ci permette di associare a stimoli analoghi sempre la presenza di un tavolo come di una sedia o dell’acqua. Prove definitive non ce ne possono essere.
Rimane il dubbio che anche se un Dio esistesse dovrebbe avere la certezza della propria onniscienza e onnipotenza a partire da qualche ente estraneo alla propria consapevolezza di esserlo: altrimenti anche lui non sarebbe altro che la inquietante illusione della consapevolezza di se stessi.

Il pensiero, nessuno lo prende molto sul serio, tranne quelli che si considerano pensatori o filosofi di professione. Ma questo non impedisce affatto che esso abbia i suoi apparati di potere - e che sia un effetto del suo apparato di potere il fatto che possa dire alla gente: non prendetemi sul serio perché io penso per voi, perché vi do una conformità, delle norme e delle regole, un’immagine, alle quali voi potrete tanto più sottomettervi quanto più direte.

Gilles Deleuze

martedì 7 luglio 2009

Nunc (non) est bibendum



L'alcool diminuisce la capacità uditiva.

Ricercatori inglesi dell'University College of London Hospitals hanno sottoposto a test un gruppo di adulti in ottima salute fra i venti e i quarant'anni di età e misurato la capacità uditiva da sobri e dopo aver consumato alcool.
Il risultato è che l'assunzione di bevande alcoliche rende l'udito meno acuto.
Il test è stato effettuato in laboratorio seguendo una metodologia scientifica, ed il test audiometrico ha rivelato una corrispondenza tra assunzione di alcool e riduzione della sensibilità uditiva.
Un ulteriore risultato del test ha mostrato una maggiore sensibilità al problema da parte dei soggetti più anziani rispetto ai più giovani.
Ma il risultato più interessante, almeno per la materia che ci riguarda, è che la perdita di sensibilità è maggiore alle basse frequenze, il che porterebbe ad una spiegazione dell'elevato livello di pressione della gamma bassa utilizzato nelle discoteche che avrebbe lo scopo di compensare l'attenuazione fisiologica in un ambiente dove l'uso di alcolici è abitualmente superiore alla media.
Fortunatamente la perdita di sensibilità risulta temporanea e dopo poche ore tutto ritorna alla normalità.
Rimane la questione: perchè l'alcool influenza e riduce la capacità uditiva?
Due le scuole di pensiero:
La prima ipotizza che l'alcool sia in grado di determinare un malfunzionamento del complesso sistema dell'orecchio interno, coclea ed organi ciliari che stimolano il nervo uditivo.
La seconda asserisce che l'alcool sia in grado di influenzare e ridurre la capacità del cervello di decifrare le informazioni regolarmente trasferite dal nervo acustico.
In ogni caso è evidente l'attinenza con la "Cocktail deafness" cioè il progressivo innalzamento del volume sonoro nei locali dove si utilizza musica col passare del tempo evidentemente legato all' incremento dell'assunzione alcoolica.

Alcune personali esperienze condotte nell'ottica di una valutazione dell'influenza ambientale sulla percezione uditiva hanno dimostrato una sensibilità dell'ascoltatore di musica riprodotta alla semplice presenza di alcool posto a distanza ravvicinata con un effetto simile a quello evidenziato dai ricercatori inglesi ovvero la sensazione di un incremento delle medie frequenze legato anche ad una diminuita percezione delle basse.
Il progressivo allontanamento fisico degli alcolici dall'ascoltatore diminuiva drasticamente la loro influenza sulla capacità di decifrare le informazioni musicali da cui il conseguente ritorno alla sensazione della qualità d'ascolto originaria.

venerdì 3 luglio 2009

Batbrain


Ludwig Van Beethoven
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L'orecchio umano è perfettamente sintonizzato per distinguere differenti frequenze sonore di varia altezza ed intensità al fine di discernere i suoni ed i rumori che ci circondano.
Altri mammiferi rispetto all'uomo, esibiscono diverse ed anche ben più efficaci prestazioni del sistema auditivo, ma una recente scoperta attribuisce agli umani la presenza di un singolo neurone nel cervello capace di discernere le più sottili informazioni sonore.

Il dottor Itzhak Fried, professore di neurologia e direttore dell'UCLA, centro di ricerca per l'epilessia, e colleghi della Hebrew University e del Weizman Institute of Science riportano nel numero di gennaio della rivista "Nature", la scoperta negli umani, di un singolo neurone capace di una spettacolare selettività ed in grado di decifrare differenze fino ad un decimo di ottava nella gamma delle frequenze audio udibili.
Di fatto la capacità di questo neurone di decifrare le più sottili differenze in termini di frequenze udibili sorpassa di molto, circa trenta volte di più, la capacità del nervo acustico di trasferire informazioni al cervello.
Si tratta di una capacità ben superiore a quella di altri mammiferi pur dotati di maggiore capacità uditiva riguardo l'estensione in frequenza, ad eccezione dei pipistrelli.

E' un paradosso, notano i ricercatori, che i neuroni acustici di un orecchio musicalmente non allenato possano decifrare piccole differenze in frequenza molto meglio del nervo acustico periferico.
Con altri nervi periferici, es. quelli della pelle, la capacità di distinguere differenze tattili è limitata dai recettori nella pelle ed i neuroni associati non rivelano una maggiore sensibilità, in contrasto con l'udito dove la sensibilità del neurone eccede quella del nervo periferico.

I ricercatori israeliani, Israel Nelken e Yael Bitterman, della Hebrew University, hanno rilevato in che modo i neuroni rispondono ai vari suoni, registrando l'attività cerebrale di quattro pazienti consezienti afflitti da epilessia inguaribile tramite l'uso di elettrodi intracraniali allo scopo di individuare il punto focale della loro anomalia.

La registrazione dell'attività cerebrale è stata effetttuata modulando utilizzando la colonna sonora del film di Sergio Leone "Il buono, il brutto ed il cattivo".

Il risultato ha sorpreso i ricercatori: un singolo neurone è stato capace di distinguere sottili differenze di frequenza, fino a un decimo d'ottava.
Come termine di riferimento, un gatto ed un topo sono capaci di distinguere rispettivamente variazioni di un'ottava il gatto e di un terzo d'ottava il topo.
Un ottava è l'intervallo fra una x frequenza ed il doppio di essa, es. 1000 hertz e 2000 hz, un terzo d'ottava 1000 hz e 1333 hz, un decimo d'ottava 1000 e 1100 hz.

E' un mistero il come l'evoluzione abbia mantenuto una capacità probabilmente inutilizzata.
Come si è sviluppata?
Questa selettività non è necessaria per la comprensione del linguaggio ma potrebbe aver avuto un ruolo per la comprensione musicale.
Anche ascoltatori non allenati sono quindi in grado di decifrare differenze di così lieve entità.
E' evidente che questa capacità è correlata con il sistema cognitivo, con il principio della memoria di lavoro e con la capacità di apprendimento, ma solo ulteriori ricerche saranno in grado di chiarire il puzzle.

E' però interessante notare che:

Si tratta di acuità di sensori umani nella corteccia uditiva del cervello e non di capacità di discernere informazioni attraverso il nervo acustico, il che potrebbe spiegare la riconosciuta sensibilità umana a determinati fenomeni psicoacustici.
Soggetti non allenati dotati di normali capacità auditive, in grado di discernere differenze che il nervo acustico non è in grado di trasportare, possono spiegare l'esistenza di fenomeni di percezione acustica non razionalmente dimostrabili.

Il documento della ricerca puntualizza la non necessità di una tale capacità di differenziazione uditiva, ma da un'altra angolazione si fa osservare che il discernimento del linguaggio non è legato soltanto alla decifrazione delle parole, e che il parlato contiene invece una grandissima varietà di informazioni al di la della semplice emissione sonora del messaggio.
Sottilissime variazioni tonali della voce possono essere fortemente indicative dello stato emozionale della persona.

Il fatto che un singolo neurone possa avere tali capacità di discernimento mette in discussione l'analisi del cervello predefinita in grandi blocchi, relazionata alle sue dimensioni fisiche ed il rapporto tra sensibilità all'ascolto e variazioni strutturali della corteccia uditiva.

domenica 7 giugno 2009

Eccellenza


Da un'intervista a Bernd Pletschen, Capo vibroacustica di Mercedes-Benz

Il suo udito deve percepire anche i toni intermedi più deboli e deve essere in grado di descrivere i suoni con la massima precisione. Con il suo team di 170 collaboratori, Bernd Pletschen assicura l’armonia di ogni suono di una Mercedes. Come ci si aspetta da un’auto di classe.

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Che cos'è l'eccellenza, Bernd Pletschen?"

"L'eccellenza è la capacità di soddifare i desideri espressi dai clienti e di intuire i desideri non espressi."


Signor Pletschen, come deve essere il suono della chiusura di una porta di una vettura di classe?

Deve essere un suono pieno, ossia un suono di chiusura solido a bassa frequenza, che ricordi vagamente la chiusura di una cassaforte. I suoni a bassa frequenza vengono percepiti in modo gradevole, mentre i rumori ad alta frequenza sono disarmonici e a volte un po’ stridenti, anche quando sono molto tenui.


È possibile formarsi in esperto in acustica di vetture?

Non esiste una formazione specifica diretta. I nostri ingegneri e fisici sono da un lato meccanici strutturali di motori o vetture e, dall’altro, tecnici acustici, discipline per le quali esistono delle formazioni. Essi si specializzano in seguito sulle automobili durante anni di pratica. Tra l’altro molti dei miei acustici suonano in gruppi oppure in orchestre ed hanno pertanto uno spiccato orecchio musicale.


Questa professione presuppone un udito perfetto?

Occorre soprattutto un orecchio sensibile, in grado di percepire gli innumerevoli mezzitoni di una vettura, nonché la capacità di descrivere suoni e rumori.


Come viene ripartito questo compito tra computer e udito umano?

Evidentemente l’elettronica assume un ruolo importante, ad esempio nel calcolo delle peculiarità acustiche e meccanico-strutturali del motore, della carrozzeria e dell’intera vettura. I programmi informatici consentono inoltre di filtrare singoli eventi sonori. Anche l’intera tecnica di controllo, che rileva dati fisici oggettivi, è affidata all’informatica. La valutazione soggettiva di rumori e pressioni acustiche nonché parzialmente delle relative oscillazioni e delle vibrazioni strutturali sollecitano la sensibilità dell’orecchio umano nonché le capacità percettive tattili.


Qual è l’importanza delle sue competenze in fisica e matematica per il suo lavoro?

Lavoriamo su complessi fenomeni fisici che presuppongono nel modo più assoluto una formazione scientifica in fisica e in ingegneria. Nel settore della tecnica delle oscillazioni uno spiccato senso della matematica è assolutamente imprescindibile: i nostri esperti ed analisti devono avere una formazione specifica in matematica. Ma vi è un altro aspetto importante, la psicoacustica.


Non tutte le persone percepiscono gli stessi suoni allo stesso modo. Com'è possibile individuare un suono che piaccia a un target ampio?

Da un lato le persone dei diversi settori di sviluppo delle serie di auto, con le quali definiamo i suoni che vogliamo ottenere, conoscono perfettamente vetture e clientela. Quando lanciamo una novità assoluta, nei test preliminari coinvolgiamo i clienti a cui chiediamo di prestare particolare attenzione ai suoni e ai rumori. Cerchiamo di capire quali suoni e quali rumori vengono percepiti in modo più armonioso e gradevole nelle più diverse situazioni.


Qual è il ruolo di un esperto in acustica di automobili? Se la costruzione di un’auto in sé è perfetta, il suono non è automaticamente perfetto?

Occorre sempre finalizzare i processi ed effettuare regolazioni raffinate. Riprendo l’esempio della sala da concerto e di un’orchestra: l’effetto di un suono è evidentemente diverso se generato da una tromba o da un violino. Nelle fasi finali della costruzione di un’auto è importante creare l’armonia giusta. La somma di molti elementi eccellenti non sfocia automaticamente in un’auto eccellente. Il nostro compito è appunto quello di fare in modo che molti elementi perfettamente calibrati sfocino in un insieme acusticamente armonioso.


Che cosa associa alla parola «passione»?

La passione si riflette nell’entusiasmo con cui si fa una determinata cosa. Ed è una delle premesse del relativo successo


In che modo ambisce all’eccellenza?

L’eccellenza è l’ambizione di soddisfare i desideri espressi dai clienti e la capacità di intuire possibili desideri non espressi. Nel mio ambito specifico, l’eccellenza è fare in modo che tutte le esigenze di comfort dei clienti vengano perfettamente soddisfatte quando si trovano in una Mercedes-Benz.

lunedì 20 aprile 2009

La prima del Don Giovanni di Mozart e le Trombe del Giudizio




La Prima del Don Giovanni di Mozart e le Trombe del Giudizio.


di Francesco Quartana



Quando nel finale del Don Giovanni - il Don Giovanni di Mozart e da Ponte - Donna Elvira, Donna Anna e Don Ottavio, Zerlina e Masetto si precipitano sulla scena per dare finalmente al protagonista la punizione che merita, questi, Don Giovanni, è già sprofondato all’inferno. E a raccontare il terribile evento c’è, solo e comprensibilmente tramortito, il suo fedele servitore, Leporello.

Sul palco è ora serenità e pace, e ai presenti – “brava gente” – non resta che rammentare l’”antichissima canzon”: “Questo è il fin di chi fa mal, questo è il fin di chi fa mal”.

Cala il sipario, si spengono le luci: il teatro adesso è vuoto, lo spettacolo è finito. Ma chi conosca anche solo sommariamente i contenuti e la genesi di questa grande opera mozartiana, sa che laggiù, da qualche parte dove il protagonista è appena sparito, qualcosa di Don Giovanni vive ancora. Vivono ancora la sua natura demoniaca e la sua ostinazione sovrannaturale, le quali, alla fine di ogni rappresentazione, tornano in vita puntuali per insinuarsi prepotentemente nei pensieri degli spettatori.

Il Don Giovanni o sia il dissoluto punito di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) – “dramma giocoso” in due atti di Lorenzo da Ponte (1749-1838) – andò in scena per la prima volta a Praga il 29 ottobre del 1787, allo Stavovske divadlo (Teatro degli Stati generali), a due passi da quella via Celetnà lungo la quale, ossessionato dai suoi “fantasmi”, si sarebbe aggirato un secolo dopo il giovane Kafka.

Il 17 gennaio di quello stesso anno, ospite del conte Thun, Mozart era già stato nella capitale boema per dirigere un’altra sua opera - anch’essa su libretto dell’abate da Ponte -, opera rappresentata per la prima volta assoluta a Vienna il primo maggio 1786 e che a Praga, con la compagnia italiana dell’impresario Pasquale Bondini, già da qualche mese otteneva un successo strepitoso, se è vero che la gente comune continuava a ripeterne il motivo dappertutto e i migliori maestri ne improvvisavano trascrizioni per pianoforte e strumenti a fiato: si trattava delle Nozze di Figaro.

Comincia da qui il lungo cammino che conduce diritto al Don Giovanni, giacché il soggiorno praghese non valse a Mozart solo l’entusiasmo senza limite dei praghesi e un compenso di mille fiorini, ma, soprattutto, l’ambita committenza di una nuova opera. All’abate da Ponte, come era già accaduto per il “Figaro”, toccò la scelta dell’argomento, e anche questa volta l’astuto poeta vide giusto rifacendosi ad un testo del Bertati intitolato “Don Giovanni tenorio o il Convitato di Pietra”, che affondava però le sue radici nella Spagna del ‘600.

La leggenda del Don Giovanni ha il suo originale nell’opera spagnola “Burlador de Sevilla” (1630) di Tirso de Molina - al secolo frate Gabriel Tellez - ma s’è ripetuta nei secoli passando per Moliére, Goldoni, lo stesso Bertati ed altri. Quando Mozart e da Ponte presentarono il “loro” Don Giovanni a Praga, dunque, proprio nuovo l’argomento non era: nei teatri di mezza Europa, già da tempo la gente aveva imparato a giudicare le “donnesche imprese” del signorotto Don Giovanni, il ruolo subalterno del suo fidato servo Leporello, l’amore disperato di Donna Elvira per Don Giovanni, la semplicità bucolica di Zerlina e Masetto, la determinazione di Donna Anna contrapposta alla mediocrità del suo promesso Don Ottavio e, soprattutto, la forza celeste che anima la statua del Commendatore, padre di Donna Anna, quando torna dall’aldilà per spedire all’inferno Don Giovanni, il suo assassino. E tutti sapevano che la vicenda si svolgeva a Siviglia, nel secolo XVI. Ma per quanto l’argomento nuovo non fosse, il successo fu senza limiti.

In verità, oltre al fiuto proverbiale di da Ponte nel modellare il carattere dei personaggi, fu un altro l’elemento che fece, e continua a fare ancor oggi la differenza tra il Don Giovanni che andò in scena a Praga quella sera d’ottobre del 1787 e tutti i precedenti: la Musica.


La musica del Don Giovanni di Mozart: una leggenda almeno quanto l’opera stessa, a cominciare dall’ouverture.

Alla fine di agosto o ai primi di settembre, quando è più probabile che Mozart lasciò Vienna per mettersi in viaggio verso Praga, quasi certamente il Maestro doveva avere ultimato il grosso della partitura dell’opera: per certo mancava comunque l’ouverture, che, secondo un’abitudine ormai acquisita da tempo, Mozart componeva solo la notte precedente la prima delle sue opere.

Fu così che l’ouverture del Don Giovanni vide la luce tra le mura della casa “I tre leoni”, dove Mozart e la moglie alloggiarono durante il loro soggiorno praghese, e pare addirittura che, avendo il musicista terminato di scrivere l’ouverture solo la mattina del 29 ottobre, l’orchestra non ebbe il tempo di provarla, sicché dovette eseguirla per la prima volta assoluta la sera stessa della prima.

In realtà, è più verosimile che Mozart abbia composto l’ouverture la notte tra il 27 e il 28 e che l’orchestra abbia avuto quindi modo di suonarla nel corso delle prove generali, che ebbero luogo il 28 ottobre, alla vigilia della prima rappresentazione.

Ai praghesi che in quella sera di fine ottobre occuparono le confortevoli poltrone del Teatro degli Stati generali, splendente al suo interno di blu, bianco e oro tipici della migliore tradizione neoclassica, fu dato di assistere ad un evento senza precedenti: l’azione, l’eros, la passione, la forza, la giustizia sovrannaturale, tutti gli elementi costituenti la trama, insomma, diventare essi stessi “musica”. E in una di quelle poltrone, impegnato a meditare su quanto di straordinario stava realizzandosi all’interno del teatro, pare sedesse, tra gli altri, uno spettatore d’eccezione, uno straniero giunto apposta dalla polacca Duchov, il più vicino al mito di Don Giovanni: l’illustre Giacomo Casanova.

Alcuni giorni prima, quasi sicuramente Mozart e il libertino veneziano avevano avuto modo di conoscersi, probabilmente alla Bertramka, la deliziosa villa dei coniugi Duschek - in quella campagna che è oggi la periferia di Praga - dove il Maestro si recò spesso insieme a da Ponte per incontrare i cantanti ed apportare gli ultimi aggiustamenti alla sua opera.

Non sappiamo cosa si dissero, né quale sia stato il parere di Casanova sul grande capolavoro mozartiano, ma è assai poco verosimile, come invece qualcuno sostiene, che proprio in quell’occasione il famoso libertino abbia collaborato alla revisione del libretto dell’opera. Vi mise mani, semmai, solo qualche tempo dopo - come dimostrerebbero due fogli ritrovati tra le sue carte - per portare una variante alla scena nona del secondo atto, e forse proprio a Duchov e non a Praga, nella biblioteca del castello del conte Waldstein, dove ormai da tempo il grande amatore, ridotto a modesto “bibliotecario”, aveva spento i suoi ardori. Ma nulla di più preciso sappiamo in proposito.

Quel che è certo è che, quel lunedì d’ottobre, inquietanti pensieri dovettero turbare la mente di Casanova alla fine della rappresentazione. Cosa voleva significare, ad esempio, nel finale, l’irrompere sulla scena dell’enorme statua di pietra del Commendatore – questa specie di “sbirro sovrannaturale”, per dirla con Mila – proveniente direttamente dall’aldilà per spedire all’inferno Don Giovanni? E le trombe, le trombe che accompagnavano in modo tragico e impietoso lo sprofondare del protagonista…

Certo non accadde, quella sera, quanto sarebbe accaduto ventitré anni dopo a Berna, quando, nel 1810, nel corso di una rappresentazione dell’opera, ai sei diavoli scritturati per la scena finale se ne aggiunse, all’insaputa dei rimanenti, un settimo, procurando tra gli attori il panico generale con conseguente morte di due di loro; e, forse a causa dei limiti tecnici dello Stavovske divadlo, o per precisa scelta dell’allestitore Domenico Guardasoni, quella sera mancò probabilmente anche il fuoco, che invece sarebbe stato, nei successivi allestimenti del Don Giovanni, specialmente in epoca romantica, il grande protagonista di quell’azione così tragica.

Eppure, il suo effetto sugli spettatori quella scena dovette averlo comunque: il protagonista che si dibatte disperatamente prima di calare all’inferno e che, anche in un momento così estremo, non si pente della sua condotta e preferisce piuttosto “andarsene” tenendo fede ai suoi principi.

* * *

“Questo è il fin di chi fa mal, questo è il fin di chi fa mal”: ma quali sono le colpe di Don Giovanni, che male ha mai fatto per meritare una fine così apocalittica?

Per tutto lo svolgersi dell’opera, direttamente o indirettamente Don Giovanni domina la scena e dà vita alla scena: è l’istinto di vita che si contrappone all’istinto di morte, è Eros che si contrappone a Thanatos. Pian piano impariamo a riconoscere in lui l’astuzia, il cinismo, l’arte del grande seduttore, la forza. Solo in un caso sul personaggio di Don Giovanni si riflette un’ombra sinistra: è all’inizio, quando ferisce a morte il Commendatore intervenuto per difendere l’onore della figlia dalle sue insidie. Ed è questa l’unica, imperdonabile colpa di Don Giovanni: essere giunto ad uccidere, aver osato tanto pur di realizzare i suoi progetti

“Don Giovanni è la terra senza cielo”, ha scritto ottimamente Giovanni Macchia, ed è proprio da un regno a lui così lontano, il cielo appunto, che gli giunge il colpo di grazia. Non saranno, infatti, gli “umani” Anna, Ottavio, Elvira, Zerlina, Masetto, lo stesso Leporello, che pure, ciascuno a suo modo, vorrebbero vederlo morto, a sbarazzarsi di lui, di lui creatura “sovrumana”, ma sarà invece proprio colui che egli ha ucciso e della cui memoria si è preso gioco con sacrilego cinismo: il Commendatore, il quale, incarnando le sembianze di una statua di pietra, sul finire dell’opera torna in vita e si reca a cena da Don Giovanni per portare a compimento la sua missione celeste.

Non sappiamo quali sentimenti abbia provato Mozart nello scrivere la musica per quella scena: scena apocalittica, non c’è dubbio, drammatica ma al tempo stesso giocosa, con Leporello bocconi che trema sotto l’enorme tavola imbandita per la cena e Don Giovanni solo a fronteggiare la sinistra statua di pietra; col Commendatore che ordina al suo assassino di pentirsi e questi che gli dà del “vecchio infatuato”, e così fino al “no!”, deciso, irremovibile del protagonista. Don Giovanni non si pente, neppure in punto di morte, ed allora ecco levarsi da dietro le quinte, impietosamente il coro:

“Tutto a tue colpe è poco.
Vieni: c’è un mal peggior!”,

e poi, finalmente, il fuoco – quel fuoco che Mozart e da Ponte prescrissero nella didascalia dell’opera ma che quasi sicuramente non fu possibile portare sulla scena a Praga -: è il momento in cui il palcoscenico si squarcia e Don Giovanni cala all’inferno.

Non sappiamo, forse non sapremo mai quale ondata di emozioni travolse Mozart – lui che si lasciava prendere così facilmente dalle emozioni! – mentre componeva la musica per quel finale. Sappiamo, però, che non riuscì a fare a meno di inserire nella partitura le trombe – solenni, purificatrici, al di sopra di tutti gli altri strumenti.

Solo in apparenza, allora, quel 29 ottobre del 1787 allo Stavovske divadlo mancò il fuoco: le trombe che accompagnarono la fine di Don Giovanni furono esse stesse “fuoco”. E tornano ad esserlo anche ai nostri giorni, ad ogni rappresentazione, più di quell’altro fuoco che, grazie ai progressi della tecnica e degli effetti speciali, oggi non è difficile produrre dal vivo sulla scena. Sono le Trombe del Giudizio, che testimoniano in tutta la loro solennità la condanna senza scampo che attende Don Giovanni.

Così laceranti, così devastanti il Maestro le avrebbe riscritte solo un’altra volta, quando, prossimo alla morte, volle che accompagnassero il coro del “Dies Irae” nell’incompiuto Requiem K.626.

domenica 22 marzo 2009

La scienza, il suono, l'inglese e Lord Ringwood


LA SCIENZA, IL SUONO, L'INGLESE e "LORD RINGWOOD".

di Francesco Quartana


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La Musica di Osiride - …quasi un Prologo

"[...] Le stelle sbiadiscono come il ricordo nell'istante che precede l'alba. Il sole appare basso a est, dorato come un occhio aperto. Ciò che può essere nominato deve esistere. Ciò che viene nominato può essere scritto. Ciò che è scritto deve essere ricordato. Ciò che è ricordato vive. Nella terra d'Egitto va errando Osiride [...]”

dal “Libro dei morti degli antichi egizi”




Lord Carnarvon: «Riuscite a vedere qualcosa?»

Howard Carter: «Sì, cose meravigliose.»

da Howard Carter (1874-1939), “Tutankhamen”, Rizzoli (1973)




Egitto, Valle dei Re, 1323 a.c.
in un giorno di primavera

Il sole appariva basso a est, dorato come un occhio aperto, quando il sommo sacerdote entrò all’interno della tomba per controllare che nulla fosse stato dimenticato. Gli bastò dare una rapida occhiata ai vari locali per accorgersi che ogni cosa si trovava esattamente laddove era necessario che fosse.

Raggiunta la camera funeraria, si avvicinò con passo felpato allo scrigno di quarzite gialla e si chinò sui sarcofagi interni, ancora aperti, illuminandoli con la luce della lampada ad olio. Gli occhi della maschera luccicarono ed il blu lapislazzuli del contorno si accese come se il tutto vivesse di vita propria.

Non c’era ancora la piccola corona di fiori preparata dalla giovane vedova, che sarebbe stata deposta solo sopra una delle bare più esterne, ma ciò che si vedeva muoveva già a profonda commozione.

L’uomo rimase qualche istante in silenzio, disorientato dalla bellezza delle finiture e dai riflessi dell’oro, e non ebbe alcun dubbio: Osiride avrebbe accolto con somma gioia il Faraone fanciullo nel suo regno senza fine.

All’interno di quel luogo sacro, in cui ogni oggetto era stato posizionato non a caso, ma seguendo un disegno prestabilito, il sacerdote guidò l’erede del Faraone nella celebrazione del solenne “Rituale dell’apertura della bocca”, lo stesso a cui rimandavano gli splendidi dipinti alle pareti, in cui il defunto, raggiunto l’aldilà, veniva accolto dalla dea Nut e, successivamente, dal dio Osiride, pronto a cingerlo in un abbraccio di comunione.

Terminato quel rituale, l’uomo diede disposizioni affinché lo scrigno più interno – quello appunto di quarzite, contenente l’uno dentro l’altro i tre sarcofagi in cui era custodito il corpo del Re - venisse sigillato; poi si diresse verso l’anticamera.

Una statua di Anubis, posta all’ingresso, sembrava scrutarlo silenziosamente.

Muovendosi a stento tra gli innumerevoli oggetti già stipati nel locale, il sacerdote raggiunse quello che era sicuramente il più bello: un trono di legno ricoperto interamente d’oro e arricchito di intarsi in vetro e ceramica.

Se ogni parte di quell’oggetto era stata lavorata con cura, lo schienale in particolare rappresentava un ineguagliabile capolavoro di pittura ed oreficeria. Vi si vedeva raffigurata la Regina intenta a cospargere il corpo del Faraone, assiso di fronte a lei, di un qualche unguento o profumo. L’espressione dei loro volti era serena e felice, messa in risalto ancora una volta da un intenso blu lapislazzuli e dai benefici raggi di Ra che illuminavano la scena dall’alto.

L’uomo rimase qualche istante a contemplare quella meraviglia, quindi tracciò dei segni invisibili sulla seduta; successivamente, liberò dalla sottile copertura di lino, in cui erano avvolti, due oggetti che aveva portato appositamente con sé in quel luogo.

Due piccole trombe, una di bronzo e oro e l’altra d’argento, luccicarono alla debole luce della lampada, prima di venire deposte con cura proprio sopra lo splendido trono dorato: avrebbero guidato il giovane Faraone nel lungo e periglioso viaggio attraverso il Duat, dalle tenebre fino alla luce dell’aldilà e, quindi, al Giudizio del dio dei morti.

Ciò che bisognava fare, era stato fatto. Ciò che bisognava scrivere, era stato scritto.

Adesso sì, tutto era pronto e i musicisti potevano schierarsi per accompagnare con la Musica di Osiride le ultime operazioni di chiusura del sepolcro - il sacerdote sapeva che, da quel momento, non era più necessaria la sua presenza nella tomba.

Prima di abbandonare l’anticamera, tuttavia, l’uomo si diresse verso un giovane suonatore di sistro e gli consegnò tre piccole piramidi di legno ed una boccetta d’argento contenente un particolare unguento.

«Per chiudere la 'porta' che attira a sé l’energia del suono» - disse, gli occhi puntati con fierezza in quelli dell’altro, che già gli restituivano uno sguardo perfettamente complice.

Poi, senza aggiungere altro, socchiuse gli occhi e prese a salire lentamente i sedici gradini che lo avrebbero riportato all’aperto – sotto il cielo sacro d’Egitto, in una funesta alba di primavera…



- II -

Dalla parte dell’incertezza



«Il dubbio è uno dei nomi dell’intelligenza»

Jorge Luis Borges (1899-1986)


«Perché mai, o déi, due e due dovrebbe dar quattro?»

Alexander Pope (1688-1744)




Sosteneva, credo, Pierre Simon de Laplace (1749-1827), che Isaac Newton (1642-1727) era un uomo fortunato poiché in natura esiste una sola legge di Gravitazione Universale ed era stato proprio lui a scoprirla. Ed ancora, in apertura al suo famoso “Saggio filosofico sulle probabilità” (1812), che:

“un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se per di più fosse abbastanza profonda da sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti più grandi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi (…)”.

Stiamo parlando, ovviamente, di quella visione analitica ed estremamente razionale della Natura che viene ricordata ancor oggi col nome di “determinismo” laplaciano, e che rappresenta il leitmotiv che accomuna un po’ tutte le opere del grande studioso francese.

D’altra parte, quando all’inizio dell’Ottocento Napoleone chiedeva proprio a Laplace come mai, in un’opera monumentale qual era la sua “Meccanica celeste”, l’autore non avesse mai ipotizzato l’esistenza di Dio, Laplace rispondeva che per scriverla non gli era stato "necessario servirsi di quell’ipotesi…"


David Hilbert

Sosteneva - e qui sono sicuro - David Hilbert (1862-1943), sul finire dell’Ottocento, che la Matematica, ovvero tutto ciò che in essa si afferma potesse essere ricondotto semplicemente ad alcuni assiomi di partenza opportunamente scelti, sulla base dei quali poter dimostrare, appunto, ogni proposizione interna alla matematica stessa - anzi, direi che questo rimase il sogno più grande del padre del formalismo matematico.

Oggi sappiamo che tanto Laplace quanto Hilbert si sbagliavano. Tuttavia, anche se sono crollate sia le certezze del determinismo sia quelle del formalismo, direi che siamo immensamente più ricchi, essendosi aperti davanti a noi, d’un tratto, nuovi orizzonti di ricerca.

In Fisica c’è una differenza sottile, ma non banale, tra ciò che si definisce “Legge” e ciò che si definisce “Principio”.

Le leggi vengono provate in laboratorio e descrivono, in sintesi matematica, la natura di un fenomeno.

È una precisa “Legge”, ad esempio, quella che descrive il fenomeno per cui la Terra ruota intorno al Sole - la “Gravitazione Universale”, già ricordata più sopra - oppure quella che descrive in che modo due corpi puntiformi carichi si attraggono o si respingono – la “Legge di Coulomb”.

Un “Principio” è molto di più: è qualcosa che nessuno ha mai smentito e di conseguenza costituisce il fondamento di una determinata parte della Fisica.

Sono principi quello di “inerzia” oppure quello di “conservazione dell’energia meccanica” (sistemi conservativi); è un principio, ancora, quello secondo cui, se due corpi sono posti a contatto, il calore fluisce “spontaneamente” sempre dal corpo a temperatura maggiore a quello a temperatura minore, fino a che entrambi non si portano all’equilibrio termico (variante del “Secondo Principio della Termodinamica”).

Essi affermano proprietà così evidenti e sempre verificate - almeno nell’ambito della Meccanica classica - che sarebbe riduttivo definirli leggi.

Quasi sempre un principio definisce anche un limite imposto dalla natura.

Supponiamo di conoscere, ad un dato istante, la posizione esatta occupata da un elettrone che si stia muovendo in una regione dello spazio. In questo caso, l’esperienza prova che non potremo mai risalire, in alcun modo, alla velocità esatta della particella in quello stesso istante.

Viceversa, se conoscessimo in modo esatto la sua velocità, allora non riusciremmo mai ad ottenere alcuna informazione valida sulla sua posizione.

Tale limite, imposto dalla natura indipendentemente dall’abilità di chi conduce le misure, prende il nome di “Principio di indeterminazione” di Heisenberg (1927) e può essere considerato il punto di partenza della cosiddetta “Meccanica Quantistica”, ovvero quella parte della Fisica moderna che fonda su leggi probabilistiche e secondo cui, il semplice atto di “osservare” un certo fenomeno fisico produce effetti sul sistema osservato ed interagisce con esso.

Com’è facile intuire, si tratta di un principio assolutamente incompatibile col determinismo laplaciano e le cui conseguenze aprono scenari del tutto inimmaginabili in passato.


Se in ambito fisico lo spettro dell’incertezza si chiama “indeterminazione”, e fa capo al già citato principio di Heisenberg, in matematica prende il nome di “indecidibilità”, e fonda su uno dei più importanti teoremi che siano mai stati dimostrati.

Werner Heisenberg


In matematica, un “assioma” è un’affermazione che viene assunta vera senza che la si dimostri. Un teorema invece è un’affermazione a cui si giunge, per dimostrazione, partendo da alcuni presupposti iniziali considerati “veri” e a cui si dà il nome di “ipotesi” - si pensi ad esempio al celebre “Teorema di Pitagora”, che esprime una precisa proprietà relativa ai lati di ogni triangolo rettangolo…

Uno degli assiomi più noti è probabilmente quello delle parallele introdotto da Euclide nel III secolo a.c., sulla base del quale, in sostanza, due rette parallele non hanno punti in comune.

Questa affermazione non si dimostra e partendo dal suo contenuto si riesce a costruire quella che chiamiamo “Geometria euclidea”, spesso utile per una descrizione razionale del mondo visibile.

Se, però, si assume per assioma che due rette parallele abbiano un punto in comune, allora è possibile costruire una nuova geometria, non euclidea, altrettanto coerente e che trova notevoli applicazioni in diversi campi della scienza.

Quali che siano gli assiomi scelti su cui fondare una teoria matematica formale, è ragionevole pensare che essi debbano costituire sempre ciò che viene detto un “sistema coerente e completo”.

Affinché un sistema di assiomi sia coerente (non contraddittorio), deve accadere che, partendo dagli assiomi, non si giunga a dimostrare che una certa affermazione risulti contemporaneamente vera e falsa.

Affinché il sistema risulti, invece, completo, è necessario che ogni affermazione (o la sua contraria) all’interno della teoria costituisca un “teorema”, cioè un asserto “dimostrabile”.

Come già accennato, su tale presupposto di coerenza e completezza fondava appunto il più grande sogno di Hilbert: riuscire a trovare il migliore dei sistemi assiomatici possibili, cioè quel sistema di assiomi, coerente e completo, a cui ricondurre non una precisa teoria matematica, ma addirittura “tutta” la Matematica.

Prima di proseguire, prendiamo in considerazione la seguente affermazione, nota anche come paradosso di Epimenide, noto filosofo dell’antichità.

http://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso_del_mentitore

Epimenide afferma:

«Io sono un mentitore»

Se volessimo stabilire se tale proposizione è dimostrabile, sorgono problemi.

Ammesso che sia “vera”, infatti, avremmo che Epimenide starebbe affermando una cosa vera dichiarando, però, di essere uno che mente, e dunque ci sarebbe un’evidente contraddizione.

D’altra parte, l’affermazione non può essere neppure “falsa” (il che equivarrebbe ad ammettere che è vera la sua contraria), poiché, in questo caso, avremmo che Epimenide sarebbe uno che dice il vero, ma il suo affermare di essere un mentitore porgerebbe ancora una volta una contraddizione.

Quella appena considerata è un esempio di proposizione “indecidibile”, cioè una proposizione della quale, se riuscissimo a dimostrare che è vera o che tale è la sua contraria, avremmo in ogni caso una contraddizione, con conseguente perdita di coerenza del sistema in cui sia stata definita.



Kurt Godel e Albert Einstein

L’esistenza di tali proposizioni costituì motivo di grande imbarazzo per i matematici di fine Ottocento, ma all’inizio del nuovo secolo fu anche il punto di partenza degli studi di Kurt Gödel (1906-1978), un giovane matematico austriaco autore di un teorema – in realtà due teoremi, il secondo ancora più destabilizzante del primo - tra i più straordinari della letteratura scientifica di ogni tempo.

Cerchiamo di capire il perché.

Supponiamo, per un attimo, di essere riusciti a costruire un sistema formale di assiomi matematici che fondi sulla coerenza, cioè un sistema che, se si utilizzano le regole della logica, non consenta di provare che una qualche affermazione interna al sistema è contemporaneamente vera e falsa.


Ebbene, il “Teorema di incompletezza” di Gödel (1931) stabilisce che un tale sistema non potrà mai essere “completo”, il che equivale a dire che esisterà sempre, all’interno del sistema stesso, almeno un’affermazione “indecidibile”, cioè un’affermazione “vera” e pur tuttavia non dimostrabile!

Ma la questione è ancor più sottile.

Se volessimo aggirare l’ostacolo decidendo di elevare ad assioma tale affermazione (assumendo vera, indifferentemente, essa o la sua contraria), in modo da non doverla più dimostrare (si ricordi che un assioma è, per definizione, un’affermazione vera che non si dimostra), il nuovo e più ampio sistema che verremmo così a costruire porterebbe nuovamente, al suo interno, almeno una proposizione indecidibile.

Si tratta di un risultato eccezionale, la cui importanza non poteva essere colta e accettata rapidamente dalla comunità scientifica del tempo. Occorreva un sacrificio: bisognava voltar pagina e diventare improvvisamente adulti, abbandonando per sempre un sogno – quello di Hilbert – assolutamente irrealizzabile.

Malgrado gli ostracismi iniziali, alla fine anche i più conservatori dovettero arrendersi all’evidenza dei fatti e riconoscere il genio di Gödel. Quest’ultimo, nel 1978, ormai malato di mente, si sarebbe lasciato morire di denutrizione in quanto convinto che qualcuno avesse intenzione di avvelenarlo.

La grandezza del suo teorema, naturalmente, è sopravvissuta. E per l’enorme contributo che il suo autore ha dato alla Matematica, all’inizio del nuovo millennio, non a caso, Time ha indicato proprio in Kurt Gödel “il matematico più rappresentativo del ventesimo secolo”.

Il “Principio di indeterminazione” di Heisenberg ed il “Teorema di incompletezza” di Gödel rappresentano due dei più importanti risultati della conoscenza umana. Il primo è appannaggio della Fisica, l’altro della Matematica.

Entrambi, se da una parte hanno aperto una voragine in ambito scientifico mostrando l’impossibilità di risolvere in positivo la cosiddetta “Crisi dei Fondamenti”, dall’altro hanno creato nuovi campi di indagine e dato vita, soprattutto, ad un nuovo modo di pensare.

Faremo bene a ricordarcene tra un attimo, quando prenderemo in considerazione i fenomeni connessi col suono e la sua percezione…




- III -

“Provando e riprovando”




«Ogni grande progresso scientifico è scaturito da un nuovo atto d'audacia dell'immaginazione»

John Dewey (1859-1952)



«La mente che si apre ad una nuova idea non torna mai alla dimensione precedente»

Albert Einstein (1879-1955)


domenica 22 febbraio 2009

Clarke's three laws



Di Arthur C. Clarke, recentemente scomparso, illuminanti sono le cosiddette "tre leggi" sulla previsione del futuro:

« Quando un anziano affermato scienziato dichiara che qualcosa è possibile, ha quasi certamente ragione; quando dichiara che qualcosa è impossibile, ha probabilmente torto. »

« L'unico modo di scoprire i limiti del possibile è avventurarsi un poco oltre, nell'impossibile. »

« Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia. »



domenica 15 febbraio 2009

Magica tecnologia


Qual'è la linea di demarcazione tra tecnologia e magia?
Esiste una reale differenza?
La prima risposta che arriverà sarà: Certo che c'è una differenza!
La magia è basata sull'esistenza di un mondo non fisico, mentre la tecnologia si basa sul progresso e le scoperte della scienza!
Ma più si riflette su questa apparente dicotomia, più si realizza che non c'è un evidente stacco tra le due materie.
L'unica reale definizione del magico(prima dell'era tecnologica),era quella di un processo di forza basata sulla divinazione e sul mistero che circondava l'evento.
Spesso la magia era identificata in una pozione, appunto magica,in quanto composta da misteriosi e fantasiosi ingredienti capaci di produrre un'energia altrimenti impossibile da ottenere.
Ma qual'è la differenza con quella che oggi chiamiamo medicina, il cui prodotto, il medicinale, è creato con una formulazione il cui fine è di produrre benessere ed energia, tanto quanto la vecchia pozione magica?
La medicina non è altro che il processo magico che diventa tecnologia!

Consideriamo ora una persona che non conosca le nuances della tecnologia.
Un telefono cellulare non gli apparirà come un oggetto magico?
Il poter parlare con qualcuno con un piccolo aggeggio in mano non è magia per il non conoscente?
Ogni meraviglia tecnologica non gli apparirà come una magia?
Allora è la non conoscenza della causa di un fenomeno che determina il confine tra i termini magia e tecnologia.
Da ignoranti della quasi totalità dei fenomeni fisici che ci si presentano davanti ogni giorno, dovremmo chiamare magia tutto quello che si presenta ai nostri sensi e del quale non sappiamo dare una chiara ed organica spiegazione tecnica.
Non lo facciamo di fatto solo perchè qualcuno che non conosciamo ha dato una spiegazione che non conosciamo accettata da altri che non conosciamo, e sulla base di questo chiamiamo scienza ciò che per noi sarebbe in realtà, magia.

lunedì 9 febbraio 2009

Convinzione e Delusione


Se nel conoscere ci si limita a certezze ed esperienze acquisite, la delusione sarà ridotta al minimo o nulla.
La delusione può esistere solo se si aderisce ad un modo di vedere o a credenze che contraddicano una o più esperienze acquisite.
Non è però possibile che per caso si decida di vedere le cose da un'altra angolazione.
Cosicchè la delusione, nel processo della conoscenza, rimarrà sempre un evento improbabile.

E'impossibile cambiare il modo di pensare di un individuo senza una sua precisa volontà di voler accettare un diverso modo di vedere.
Anche davanti al ragionamento più stringente, l'oppositore creerà una barriera protettiva al suo modo di pensare per non ingenerare in se una riduzione dell'autostima ed il conseguente insorgere di una profonda delusione.
Si può cambiare idea, ma in un modo differente.
E' sufficiente che un gruppo leader acquisisca una diversa opinione su un argomento: questa verrà con molta più facilità accettata da un consistente numero di seguaci trascinati e convinti sia dal carisma del gruppo interpretante sia dalla rassicurazione del numero dei seguaci aderenti all'interpretazione alternativa.
Da qui potrà scaturire un radicale cambio del modo di analizzare un argomento o una situazione tanto da arrivare a meravigliarsi di aver potuto prima valutare l'oggetto o l'evento in modo differente.
Gli effetti di un idea rivoluzionaria sono a loro volta destinati, una volta accettati e divenuti acquisizione collettiva, a diventare il nuovo statu quo, il nuovo ostacolo all'introduzione di nuove idee e di nuove interpretazioni in un processo (o progresso) senza fine.

lunedì 19 gennaio 2009

Peter W. Belt: Do you believe in magic ?




Pochissimi conoscono un personaggio inglese che, alla fine degli anni 70, con teorie deliranti mise a soqquadro il mondo dell'alta fedeltà inglese, asserendo che in un sistema audio la qualità del suono percepito non fosse soltanto influenzata dalla bontà delle apparecchiature ma , soprattutto, da tutto l'ambiente circostante e non non dal punto di vista tradizionale dell'acustica ambientale.
Gli oggetti presenti nella stanza d'ascolto , producendo un "campo avverso", sarebbero capaci di influenzare la capacità dell'ascoltatore di percepire la qualità del suono riprodotto.
Questi oggetti, dopo la cura con strisce adesive luminescenti, cremine, liquidi, etc, opportunamente trattati da Belt , perderebbero la loro iniziale negatività riducendo quindi gli ostacoli alla percezione della qualità che si presumerebbe quindi, eesere presente nella sala d'ascolto in misura superiore a quanto percepibile.
Ovviamente la comunità audio internazionale fu scioccata da queste teorie fuori dal senso comune, e, nonostante numerose verifiche sul campo , anche da parte di personaggi all'epoca ed ancor oggi accreditati, Peter W. Belt fu rapidamente emarginato e sparì dal mercato, o meglio, dalla presenza sulla stampa ufficiale.
In realtà non sparì perchè ancora oggi la PWB è in attività ed ha un sito complicatissimo da leggere per i non iniziati., con argomenti e discussioni riguardanti in maggior parte, il meccanismo della percezione della qualità d'ascolto.

http://www.belt.demon.co.uk/


Per far conoscere il pensiero di quello che è stato, nella storia dell'audio, l'inventore ed il precursore del tweak estremo, ecco la traduzione di due lettere scritte dalla famiglia Belt, a Greg Weaver di Soundstage, rivista on line di audio.

Caro Greg
Avendo notato il tuo interesse, mi sono preso la libertà di scrivere una lettera non richiesta per illustrarti un'unica ed originale scoperta fatta da mio padre Peter Belt.
Mio padre ha lavorato su un nuovo e rivoluzionario concetto per diversi anni, arrivato oggi ad uno stadio abbastanza avanzato.
Sfortunatamente è difficile sintetizzarlo in pochi concetti, ma fondamentalmente ha scoperto che tutti gli oggetti presenti in un ambiente, hanno un campo energetico che influenza negativamente la nostra soggettiva percezione del suono.
Non sono escluse le apparecchiature audio.
Quando ascoltiamo musica quindi, corpo e sensi sono sotto stress e la nostra percezione del suono viene attenuata.
Io capisco che tutto ciò è ridicolo ed antiscientifico, ma tutte le nuove teorie spesso lo sono.
Mio padre ha realizzato dei semplici oggetti, come nastrini , foglietti adesivi,e vari altri che, trattati in modo opportuno, sono in grado di neutralizzare l'energia negativa.
I risultati sul suono sono stupefacenti!
Sono d'accordo sul tuo essere scettico, ma ti consiglio caldamente di provarli!
Farei notare che tutti i tweaks utilizzati dagli audiofili attualmente, non producono il loro effetto per la funzione che dichiarano di possedere, ma, quando funzionano, essi di fatto lo fanno in quanto riducono il campo avverso dell'apparecchiatura dove sono stati applicati.
Come affermato in precedenza, i miglioramenti sono spettacolari.
Se vuoi rimuovere incredulità e scetticismo,ti spedirei un campione gratuito di uno dei prodotti commercializzati da mio padre.
Spero di sentirti presto.

Chris Belt.

Commento di Greg Weaver

Certamente tutto ciò ha catturato la mia attenzione!
Tutto questo però mi suonava un metafisico e paranormale, e chiaramente ho manifestato il mio scetticismo.
Benchè io non sia un'ingegnere, baso comunque la maggior parte delle mie conoscenze sulla scienza e non sul dogma.
Ma incuriosito, ho chiesto ulteriori spiegazioni.

Ecco la rispoosta.

"Una breve e semplicistica spiegazione della nostra teoria"

Noi crediamo che, come esseri umani, abbiamo assimilato in modo non percettibile ed acquisito attraverso l'evoluzione come meccanismo di sopravvivenza, un'istintivo riconoscimento di campi avversi e del senso di pericolo, nell'ambiente che ci circonda.
In presenza di questi campi, scatta un meccanismo che allerta i nostri sensi o quantomeno li tiene in attività.
Come risultato di ricerche empiriche, abbiamo concluso che oggetti moderni come apparecchiature elettroniche ed elettriche, plastica, batterie etc, producono questi campi avversi. In risposta a tutto questo, gli esseri umani hanno sviluppato un modo di modificare il loro stato fisiologico in modo da adattarsi e convivere con questi oggetti.
In questo stato di allerta non siamo in grado di cogliere le sottili nuances del suono.
Ulteriormente, (secondo le teorie di Rupert Sheldrake biologo inglese portatore di teorie rivoluzionarie basate sulla "morphic resonance"):
Noi crediamo che tutti gli oggetti siano collegati tra loro e che quindi anche i loro campi avversi siano altrettanto collegati.
I nostri prodotti incorporano beneficiali campi di energia e, quando attaccati ad un oggetto di campo avverso, ne neutralizzano l'energia negativa trasformandola in una "friendly".
Il nostro stato fisiologico ora è in grado di rilassarsi e siamo ora in grado di apprezzare le sottili nuances del suono.
Più oggetti saranno "trattati", più grande sarà l'effetto liberatorio sul nostro stato fisiologico, e più ampia la percezione del miglioramento della qualità sonora.
Noi crediamo che l'esattezza della teoria possa essere verificata attaccando uno dei nostri prodotti (ad esempio una piccola striscia adesiva di "Silver Rainbow Foil") ad un oggetto nell'ambiente d'ascolto non relazionato alle apparecchiature in funzione, e controllando se si percepisce e si acquisisce stabilmente un miglioramento della qualità del suono.
Un oggetto del genere potrebbe essere rappresentato dalla o dalle batterie di un telecomando o di un telefono.
Se un miglioramento sarà percepito, non sembra si possa dare all'esperimento un'adeguata spiegazione convenzionale.

Lettura raccomandata.
Rupert Sheldrake: "The presence of the past".

Best regards
Chris Belt

Commento di Greg Weaver.

Credo io a tutto questo?
Non lo so.
Ho una spiegazione migliore?
No.
Questo aggeggio funziona?
Assolutamente si.
Tutto quello che posso dire è che fa realmente ciò che dichiara di fare.
Sono stato condizionato per ascoltare questi miglioramenti?
Come è' possibile che io sia stato condizionato quando semmai dovevo esserlo al contrario, convinto, all'inizio della prova, che non sarebbe successo nulla?
Giusto per verificare di non essere completamente impazzito (avevo già prenotato una camera con i muri di gomma all'ospedale locale),ho fatto una prova con un'occasionale visitatore.
Ha notato la differenza entro cinque secondi tra la traccia originale e quella dopo l'applicazione del rainbow foil.
Non sembra ai tecnici, come al nostro tecnical editor Doug Blackburn, che il fenomeno abbia a che fare con il tipo di miglioramento ottenuto spegnendo oggetti come ad esempio il computer durante l'ascolto.
Il risultato è un ampliamento dell'immagine sonora, una diminuzione della suono "bianco artificiale" dei cembali, una migliorata precisione del timbro degli strumenti ed una generale sensazione di incremento della chiarezza generale.
Non avrei mai creduto di dover rischiare la mia credibilità scrivendo di questa inesplicabile ma altamente efficace applicazione.


Greg Weaver's April 1999 Rainbow Foil review :-
Http://www.soundstage.com/synergize/synergize041999.htm

giovedì 1 gennaio 2009

The right perception.



Udito, vista, olfatto,gusto, tatto, sono gli organi sensori che trasportano le informazioni al cervello, tramite il quale queste verranno decodificate.
La percezione della realtà sarà determinata dall'interpretazione del cervello dei segnali ad esso trasferiti.
Qualsiasi cosa possa alterare la capacità del cervello di interpretare le informazioni ricevute, altererà la percezione della realtà.
Nessuno è in grado di conoscere tutto ciò che è in grado di alterare la capacità del cervello di decodificare le sensazioni.
Nessuno è in grado di determinare se le sensazioni arrivino al cervello nel modo corretto come crediamo di averle percepite.
Per conseguenza lo stesso oggetto potrà apparirci in modo differente in diverse occasioni e in diverse circostanze.
L'ascolto dei suoni e la percezione musicale non fanno eccezione a questa regola.