lunedì 20 aprile 2009

La prima del Don Giovanni di Mozart e le Trombe del Giudizio




La Prima del Don Giovanni di Mozart e le Trombe del Giudizio.


di Francesco Quartana



Quando nel finale del Don Giovanni - il Don Giovanni di Mozart e da Ponte - Donna Elvira, Donna Anna e Don Ottavio, Zerlina e Masetto si precipitano sulla scena per dare finalmente al protagonista la punizione che merita, questi, Don Giovanni, è già sprofondato all’inferno. E a raccontare il terribile evento c’è, solo e comprensibilmente tramortito, il suo fedele servitore, Leporello.

Sul palco è ora serenità e pace, e ai presenti – “brava gente” – non resta che rammentare l’”antichissima canzon”: “Questo è il fin di chi fa mal, questo è il fin di chi fa mal”.

Cala il sipario, si spengono le luci: il teatro adesso è vuoto, lo spettacolo è finito. Ma chi conosca anche solo sommariamente i contenuti e la genesi di questa grande opera mozartiana, sa che laggiù, da qualche parte dove il protagonista è appena sparito, qualcosa di Don Giovanni vive ancora. Vivono ancora la sua natura demoniaca e la sua ostinazione sovrannaturale, le quali, alla fine di ogni rappresentazione, tornano in vita puntuali per insinuarsi prepotentemente nei pensieri degli spettatori.

Il Don Giovanni o sia il dissoluto punito di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) – “dramma giocoso” in due atti di Lorenzo da Ponte (1749-1838) – andò in scena per la prima volta a Praga il 29 ottobre del 1787, allo Stavovske divadlo (Teatro degli Stati generali), a due passi da quella via Celetnà lungo la quale, ossessionato dai suoi “fantasmi”, si sarebbe aggirato un secolo dopo il giovane Kafka.

Il 17 gennaio di quello stesso anno, ospite del conte Thun, Mozart era già stato nella capitale boema per dirigere un’altra sua opera - anch’essa su libretto dell’abate da Ponte -, opera rappresentata per la prima volta assoluta a Vienna il primo maggio 1786 e che a Praga, con la compagnia italiana dell’impresario Pasquale Bondini, già da qualche mese otteneva un successo strepitoso, se è vero che la gente comune continuava a ripeterne il motivo dappertutto e i migliori maestri ne improvvisavano trascrizioni per pianoforte e strumenti a fiato: si trattava delle Nozze di Figaro.

Comincia da qui il lungo cammino che conduce diritto al Don Giovanni, giacché il soggiorno praghese non valse a Mozart solo l’entusiasmo senza limite dei praghesi e un compenso di mille fiorini, ma, soprattutto, l’ambita committenza di una nuova opera. All’abate da Ponte, come era già accaduto per il “Figaro”, toccò la scelta dell’argomento, e anche questa volta l’astuto poeta vide giusto rifacendosi ad un testo del Bertati intitolato “Don Giovanni tenorio o il Convitato di Pietra”, che affondava però le sue radici nella Spagna del ‘600.

La leggenda del Don Giovanni ha il suo originale nell’opera spagnola “Burlador de Sevilla” (1630) di Tirso de Molina - al secolo frate Gabriel Tellez - ma s’è ripetuta nei secoli passando per Moliére, Goldoni, lo stesso Bertati ed altri. Quando Mozart e da Ponte presentarono il “loro” Don Giovanni a Praga, dunque, proprio nuovo l’argomento non era: nei teatri di mezza Europa, già da tempo la gente aveva imparato a giudicare le “donnesche imprese” del signorotto Don Giovanni, il ruolo subalterno del suo fidato servo Leporello, l’amore disperato di Donna Elvira per Don Giovanni, la semplicità bucolica di Zerlina e Masetto, la determinazione di Donna Anna contrapposta alla mediocrità del suo promesso Don Ottavio e, soprattutto, la forza celeste che anima la statua del Commendatore, padre di Donna Anna, quando torna dall’aldilà per spedire all’inferno Don Giovanni, il suo assassino. E tutti sapevano che la vicenda si svolgeva a Siviglia, nel secolo XVI. Ma per quanto l’argomento nuovo non fosse, il successo fu senza limiti.

In verità, oltre al fiuto proverbiale di da Ponte nel modellare il carattere dei personaggi, fu un altro l’elemento che fece, e continua a fare ancor oggi la differenza tra il Don Giovanni che andò in scena a Praga quella sera d’ottobre del 1787 e tutti i precedenti: la Musica.


La musica del Don Giovanni di Mozart: una leggenda almeno quanto l’opera stessa, a cominciare dall’ouverture.

Alla fine di agosto o ai primi di settembre, quando è più probabile che Mozart lasciò Vienna per mettersi in viaggio verso Praga, quasi certamente il Maestro doveva avere ultimato il grosso della partitura dell’opera: per certo mancava comunque l’ouverture, che, secondo un’abitudine ormai acquisita da tempo, Mozart componeva solo la notte precedente la prima delle sue opere.

Fu così che l’ouverture del Don Giovanni vide la luce tra le mura della casa “I tre leoni”, dove Mozart e la moglie alloggiarono durante il loro soggiorno praghese, e pare addirittura che, avendo il musicista terminato di scrivere l’ouverture solo la mattina del 29 ottobre, l’orchestra non ebbe il tempo di provarla, sicché dovette eseguirla per la prima volta assoluta la sera stessa della prima.

In realtà, è più verosimile che Mozart abbia composto l’ouverture la notte tra il 27 e il 28 e che l’orchestra abbia avuto quindi modo di suonarla nel corso delle prove generali, che ebbero luogo il 28 ottobre, alla vigilia della prima rappresentazione.

Ai praghesi che in quella sera di fine ottobre occuparono le confortevoli poltrone del Teatro degli Stati generali, splendente al suo interno di blu, bianco e oro tipici della migliore tradizione neoclassica, fu dato di assistere ad un evento senza precedenti: l’azione, l’eros, la passione, la forza, la giustizia sovrannaturale, tutti gli elementi costituenti la trama, insomma, diventare essi stessi “musica”. E in una di quelle poltrone, impegnato a meditare su quanto di straordinario stava realizzandosi all’interno del teatro, pare sedesse, tra gli altri, uno spettatore d’eccezione, uno straniero giunto apposta dalla polacca Duchov, il più vicino al mito di Don Giovanni: l’illustre Giacomo Casanova.

Alcuni giorni prima, quasi sicuramente Mozart e il libertino veneziano avevano avuto modo di conoscersi, probabilmente alla Bertramka, la deliziosa villa dei coniugi Duschek - in quella campagna che è oggi la periferia di Praga - dove il Maestro si recò spesso insieme a da Ponte per incontrare i cantanti ed apportare gli ultimi aggiustamenti alla sua opera.

Non sappiamo cosa si dissero, né quale sia stato il parere di Casanova sul grande capolavoro mozartiano, ma è assai poco verosimile, come invece qualcuno sostiene, che proprio in quell’occasione il famoso libertino abbia collaborato alla revisione del libretto dell’opera. Vi mise mani, semmai, solo qualche tempo dopo - come dimostrerebbero due fogli ritrovati tra le sue carte - per portare una variante alla scena nona del secondo atto, e forse proprio a Duchov e non a Praga, nella biblioteca del castello del conte Waldstein, dove ormai da tempo il grande amatore, ridotto a modesto “bibliotecario”, aveva spento i suoi ardori. Ma nulla di più preciso sappiamo in proposito.

Quel che è certo è che, quel lunedì d’ottobre, inquietanti pensieri dovettero turbare la mente di Casanova alla fine della rappresentazione. Cosa voleva significare, ad esempio, nel finale, l’irrompere sulla scena dell’enorme statua di pietra del Commendatore – questa specie di “sbirro sovrannaturale”, per dirla con Mila – proveniente direttamente dall’aldilà per spedire all’inferno Don Giovanni? E le trombe, le trombe che accompagnavano in modo tragico e impietoso lo sprofondare del protagonista…

Certo non accadde, quella sera, quanto sarebbe accaduto ventitré anni dopo a Berna, quando, nel 1810, nel corso di una rappresentazione dell’opera, ai sei diavoli scritturati per la scena finale se ne aggiunse, all’insaputa dei rimanenti, un settimo, procurando tra gli attori il panico generale con conseguente morte di due di loro; e, forse a causa dei limiti tecnici dello Stavovske divadlo, o per precisa scelta dell’allestitore Domenico Guardasoni, quella sera mancò probabilmente anche il fuoco, che invece sarebbe stato, nei successivi allestimenti del Don Giovanni, specialmente in epoca romantica, il grande protagonista di quell’azione così tragica.

Eppure, il suo effetto sugli spettatori quella scena dovette averlo comunque: il protagonista che si dibatte disperatamente prima di calare all’inferno e che, anche in un momento così estremo, non si pente della sua condotta e preferisce piuttosto “andarsene” tenendo fede ai suoi principi.

* * *

“Questo è il fin di chi fa mal, questo è il fin di chi fa mal”: ma quali sono le colpe di Don Giovanni, che male ha mai fatto per meritare una fine così apocalittica?

Per tutto lo svolgersi dell’opera, direttamente o indirettamente Don Giovanni domina la scena e dà vita alla scena: è l’istinto di vita che si contrappone all’istinto di morte, è Eros che si contrappone a Thanatos. Pian piano impariamo a riconoscere in lui l’astuzia, il cinismo, l’arte del grande seduttore, la forza. Solo in un caso sul personaggio di Don Giovanni si riflette un’ombra sinistra: è all’inizio, quando ferisce a morte il Commendatore intervenuto per difendere l’onore della figlia dalle sue insidie. Ed è questa l’unica, imperdonabile colpa di Don Giovanni: essere giunto ad uccidere, aver osato tanto pur di realizzare i suoi progetti

“Don Giovanni è la terra senza cielo”, ha scritto ottimamente Giovanni Macchia, ed è proprio da un regno a lui così lontano, il cielo appunto, che gli giunge il colpo di grazia. Non saranno, infatti, gli “umani” Anna, Ottavio, Elvira, Zerlina, Masetto, lo stesso Leporello, che pure, ciascuno a suo modo, vorrebbero vederlo morto, a sbarazzarsi di lui, di lui creatura “sovrumana”, ma sarà invece proprio colui che egli ha ucciso e della cui memoria si è preso gioco con sacrilego cinismo: il Commendatore, il quale, incarnando le sembianze di una statua di pietra, sul finire dell’opera torna in vita e si reca a cena da Don Giovanni per portare a compimento la sua missione celeste.

Non sappiamo quali sentimenti abbia provato Mozart nello scrivere la musica per quella scena: scena apocalittica, non c’è dubbio, drammatica ma al tempo stesso giocosa, con Leporello bocconi che trema sotto l’enorme tavola imbandita per la cena e Don Giovanni solo a fronteggiare la sinistra statua di pietra; col Commendatore che ordina al suo assassino di pentirsi e questi che gli dà del “vecchio infatuato”, e così fino al “no!”, deciso, irremovibile del protagonista. Don Giovanni non si pente, neppure in punto di morte, ed allora ecco levarsi da dietro le quinte, impietosamente il coro:

“Tutto a tue colpe è poco.
Vieni: c’è un mal peggior!”,

e poi, finalmente, il fuoco – quel fuoco che Mozart e da Ponte prescrissero nella didascalia dell’opera ma che quasi sicuramente non fu possibile portare sulla scena a Praga -: è il momento in cui il palcoscenico si squarcia e Don Giovanni cala all’inferno.

Non sappiamo, forse non sapremo mai quale ondata di emozioni travolse Mozart – lui che si lasciava prendere così facilmente dalle emozioni! – mentre componeva la musica per quel finale. Sappiamo, però, che non riuscì a fare a meno di inserire nella partitura le trombe – solenni, purificatrici, al di sopra di tutti gli altri strumenti.

Solo in apparenza, allora, quel 29 ottobre del 1787 allo Stavovske divadlo mancò il fuoco: le trombe che accompagnarono la fine di Don Giovanni furono esse stesse “fuoco”. E tornano ad esserlo anche ai nostri giorni, ad ogni rappresentazione, più di quell’altro fuoco che, grazie ai progressi della tecnica e degli effetti speciali, oggi non è difficile produrre dal vivo sulla scena. Sono le Trombe del Giudizio, che testimoniano in tutta la loro solennità la condanna senza scampo che attende Don Giovanni.

Così laceranti, così devastanti il Maestro le avrebbe riscritte solo un’altra volta, quando, prossimo alla morte, volle che accompagnassero il coro del “Dies Irae” nell’incompiuto Requiem K.626.