lunedì 3 giugno 2013

Credere o non credere ?




Credere o non credere?

Perché le cattive credenze non muoiono ?


Autore ignoto[*]
Traduzione di Luca Bergamasco
Originale trasmesso da Marcus Prometheus

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Dato che le credenze sono progettate per incrementare la nostra capacità di sopravvivenza, sono biologicamente progettate per opporre una forte resistenza ai cambiamenti. Per cambiare le credenze, gli scettici devono agire anche sulle questioni cerebrali “di sopravvivenza” relative a significati ed implicazioni, oltre a discutere dei dati.

Dato che un punto base sia del pensiero scettico che della ricerca scientifica è che le credenze possono essere errate, spesso a scettici e scienziati appare strano ed irritante il fatto che le credenze di così tante persone non cambino nemmeno di fronte alla negazione offerta dall’evidenza dei fatti. Ci chiediamo: come può la gente mantenere delle credenze che contraddicono i dati empirici?

Questa confusione può produrre nei pensatori scettici una disgraziata tendenza a sminuire e svilire quelle persone le cui credenze non cambiano in conseguenza dell’evidenza dei fatti. Si possono vedere queste persone come inferiori, stupide o pazze.

Questo atteggiamento nasce dal fatto che gli scettici non hanno capito lo scopo biologico delle credenze, né il fatto che esse hanno una necessità neurologica di essere resilienti[b] ed ostinatamente resistenti al cambiamento. Il fatto è che, nonostante tutto il rigore del loro pensiero, molti scettici non hanno una comprensione chiara o razionale di che cosa siano le credenze e del perché persino quelle fallaci non muoiono facilmente. Comprendere lo scopo biologico delle credenze può aiutare gli scettici ad essere molto più efficienti nella loro sfida alle credenze irrazionali e nella loro comunicazione di conclusioni scientifiche.

Lo scopo primario del nostro cervello è quello di mantenerci vivi. Certamente il cervello fa ben più di ciò, ma la sopravvivenza è sempre il suo scopo fondamentale, ed è sempre posta in cima alla lista delle priorità. Se subiamo una ferita tale che al nostro corpo resta soltanto l’energia sufficiente a sostenere o la coscienza, o il battito cardiaco, il cervello non ha alcun problema a scegliere: ci fa entrare in coma (sopravvivenza prima della coscienza) piuttosto che lasciarci coscienti in una spirale mortale (coscienza prima della sopravvivenza).

Dato che l’utilità fondamentale di ogni attività cerebrale è quella della sopravvivenza, l’unico modo di comprendere accuratamente qualunque funzione cerebrale è quello di esaminarne il valore come strumento di sopravvivenza. Persino la difficoltà di trattamento di alcuni disordini comportamentali come l’obesità e la tossicodipendenza può essere compresa solo esaminando il loro rapporto con la sopravvivenza. Una qualunque riduzione dell’apporto calorico, o della disponibilità di una sostanza da cui una persona è dipendente, è sempre percepita dal cervello come una minaccia alla sopravvivenza. Il risultato è che il cervello difende con forza l’eccesso di alimentazione o l’abuso della suddetta sostanza, producendo quei fenomeni familiari (il mentire, lo sgattaiolare, il negare, il razionalizzare, ed il giustificarsi) che di norma mostrano le persone che soffrono di questi disordini.

Uno dei principali strumenti che il nostro cervello ha a disposizione per assicurare la nostra sopravvivenza sono i nostri sensi. È ovvio che dobbiamo essere in grado di percepire un pericolo con accuratezza per poter prendere quelle misure progettate per tenerci al sicuro. Per sopravvivere dobbiamo essere in grado di vedere il leone che ci carica quando usciamo dalla nostra caverna, o sentire l’intruso che si infila in casa nostra nel mezzo della notte.

I soli sensi sono però inadatti come sensori di pericolo efficaci, perché hanno delle grosse limitazioni sia in ampiezza che in portata. Possiamo avere un contatto sensoriale diretto solo con una piccola porzione del mondo per volta. Il cervello ritiene che questo sia un problema significativo, in quanto persino la nostra normale vita quotidiana richiede che noi entriamo ed usciamo continuamente dal campo delle nostre percezioni del mondo così com’è qui ed ora. Entrare in un territorio che non abbiamo visto in precedenza, e del quale non abbiamo mai sentito parlare, ci mette nella pericolosa posizione di non avere alcun preavviso di potenziali pericoli. Se cammino in un edificio sconosciuto in un quartiere malfamato della città, le mie probabilità di sopravvivenza diminuiscono, perché non ho alcun modo di sapere se il tetto è sul punto di collassare, o se un uomo armato mi sta aspettando all’ingresso.

Qui entrano in gioco le credenze. “Credenza” è il nome che diamo allo strumento di sopravvivenza del cervello che è progettato per incrementare e migliorare la funzione di identificazione dei pericoli svolta dai nostri sensi. Le credenze estendono la portata dei nostri sensi in modo che noi possiamo più facilmente scoprire pericoli, e quindi incrementare le nostre probabilità di sopravvivenza quando ci inoltriamo in un territorio non familiare. In sintesi, le credenze hanno per il cervello la funzione di “sensori di pericolo a lungo raggio”.

Da un punto di vista funzionale, il cervello tratta le credenze come “mappe” interiori di quelle porzioni del mondo con le quali non abbiamo un contatto sensoriale diretto. Stando seduto nel mio soggiorno non posso vedere la mia macchina. Anche se l’ho parcheggiata nel vialetto di fianco a casa un po’ di tempo fa, utilizzando solo i dati sensoriali immediati io non so se sia ancora lì. Il risultato è che, in questo momento, i dati sensoriali mi sono di ben poca utilità per quanto concerne la mia macchina. Per trovare la macchina con un minimo livello di efficienza, il mio cervello deve ignorare i dati sensoriali attuali (i quali, se dovessimo basarci solo su di essi in senso stretto, non solo non mi aiutano a localizzare la macchina, ma in effetti mi indicano che la macchina non esiste più) e rivolgerci invece alla mappa interiore della dislocazione della macchina. Basandosi sulla credenza piuttosto che sui dati sensoriali, il cervello può “sapere” qualcosa del mondo con cui non ho alcun contatto sensoriale immediato. Ciò permette al cervello di “estende” la sua conoscenza del mondo ed il suo contatto con esso.

La capacità della credenza di estendere il contatto con il mondo al di là della portata dei sensi immediati incrementa in sostanza la nostra capacità di sopravvivere. Un cavernicolo ha capacità di sopravvivenza assai maggiori, se è in grado di conservare la credenza che esista un pericolo nella giungla anche quando i suoi dati sensoriali non indicano alcuna minaccia immediata. Un agente di polizia sarà notevolmente più al sicuro se può continuare a credere che la persona che ha fermato per un’infrazione al codice stradale potrebbe essere uno psicopatico armato con un impulso ad uccidere, anche se ha un aspetto in apparenza innocuo.

Dato che le credenze non richiedono dati sensoriali immediati per poter fornire al cervello informazioni molto utili alla sopravvivenza, esse hanno anche la funzione di sopravvivenza addizionale di fornire informazioni su quei campi della vita che non hanno una relazione diretta con delle entità sensoriali. Questa è l’area dell’astrazione e dei principii, che comprende cose come “motivi”, “cause” e “significati”. Io non posso vedere o sentire il “motivo” chiamato “area di bassa pressione” che fa sì che un temporale si scateni sulla sfilata che ho organizzato, pertanto la mia capacità di credere che il motivo è la bassa pressione mi viene in soccorso. Se dovessi basarmi solo ed esclusivamente sui sensi per determinare la causa della tempesta, non potrei comprendere perché c’è stata. Per quanto ne so potrebbe essere stata portata da folletti volanti invisibili che devo abbattere con la doppietta se voglio far sparire le nuvole. Pertanto, il fatto che il mio cervello faccia affidamento sulla mia “credenza” nel motivo chiamato “bassa pressione” piuttosto che sui dati sensoriali (o, come nel caso della mia macchina, sull’assenza di dati sensoriali) mi è d’aiuto per la mia sopravvivenza: evito infatti un’esperienza di carcerazione con miriadi di personaggi pericolosi che seguirà al mio arresto per aver sparato in aria a quei piccoli rompiscatole di folletti.

La resilienza delle credenze
Dato che sia i sensi che le credenze sono strumenti di sopravvivenza, e che si sono evoluti in modo da incrementare reciprocamente le loro potenzialità, il cervello li considera fornitori di informazioni per la sopravvivenza separati, ma di pari importanza. La perdita di uno qualsiasi dei due ci mette in pericolo. Senza i sensi non potremmo sapere alcunché del mondo compreso nel nostro campo percettivo. Senza le credenze non potremmo sapere alcunché del mondo al di fuori dei nostri sensi, o di significati, motivi o cause.
Ciò vuol dire che le credenze sono progettate in modo da funzionare indipendentemente dai dati sensoriali. In effetti, l’intero valore, al fine della sopravvivenza, delle credenze si basa proprio sulla loro abilità di persistere di fronte ad un’evidenza fattuale che le contraddice. Non si presume che le credenze cambino facilmente o semplicemente come reazione a prove che le smentiscono.
Se lo facessero, sarebbero pressoché inutili come strumento di sopravvivenza. Il nostro cavernicolo non durerebbe molto se la sua credenza nei potenziali pericoli della giungla evaporasse ogni volta che le sue informazioni sensoriali gli dicessero che non c’è alcuna minaccia immediata. Un agente di polizia incapace di credere alla possibilità che ci sia un assassino in agguato dietro ad un’apparenza inoffensiva, potrebbe essere facilmente ferito od ucciso.

Per quanto riguarda il cervello, non c’è alcun bisogno che i dati e le credenze vadano d’accordo.

Entrambi questi strumenti si sono evoluti per incrementare reciprocamente la loro efficienza e per supportarsi l’un l’altro entrando in contatto con differenti porzioni del mondo. Sono progettati per essere in grado di essere in disaccordo. Ecco perché gli scienziati possono credere in Dio, e persone che di norma sono piuttosto ragionevoli e razionali possono credere in cose per le quali non c’è alcun dato credibile, come dischi volanti, telepatia e psicocinesi.

Quando i dati e le credenze entrano in conflitto, il cervello non dà automaticamente la preferenza ai dati. Ecco perché le credenze – persino credenze dannose, credenze irrazionali, credenze stupide o credenze folli – spesso non muoiono di fronte a prove che le smentiscono. Al cervello non importa nulla se le credenze combaciano o meno con i dati. Gli importa che la credenza sia utile alla sopravvivenza. Punto. Pertanto, mentre la parte scientifica e razionale del cervello può ritenere che i dati dovrebbero prevalere sulle credenze che li contraddicono, ad un livello d’importanza più fondamentale il cervello non ha questa tendenza. È estremamente reticente a buttare via le sue credenze. Come un vecchio soldato con un vecchio fucile che non è completamente convinto che la guerra sia finita, spesso il cervello rifiuta di consegnare le armi anche se i dati dicono che dovrebbe farlo.

Credenze “non consequenziali”
Anche quelle credenze che non sembrano connesse in maniera chiara o diretta alla sopravvivenza (come la capacità del nostro cavernicolo di credere a potenziali pericoli) vi sono in realtà strettamente connesse. Questo è possibile perché le credenze non esistono in maniera indipendente o in un vuoto. Sono interrelate tra loro in un sistema molto complesso di mutui incastri che crea la visione di base che il cervello ha del mondo. È su questo sistema che il cervello fa affidamento per sperimentare coerenza, controllo, coesione e sicurezza nel mondo. Il cervello deve conservare questo sistema intatto per percepire che lo scopo della sopravvivenza è perseguito con successo.
Ciò significa che anche piccole credenze non consequenziali possono essere parte integrante dell’esperienza di sopravvivenza del cervello tanto quanto quelle credenze che sono connesse alla sopravvivenza in maniera “ovvia”. Pertanto, il tentativo di cambiare una qualunque credenza (non importa quanto possa sembrare insignificante o stupida) può produrre un’increspatura in tutto il sistema, ed avere l’effetto finale di minacciare l’esperienza di sopravvivenza del cervello. Ecco perché tanto spesso la gente è portata a difendere persino quelle credenze he possono sembrare insignificanti o collaterali. Un creazionista non può tollerare di credere all’accuratezza dei dati che indicano la realtà dell’evoluzione, non a causa dell’accuratezza o meno dei dati stessi, ma perché cambiare anche solo una credenza relativa a questioni bibliche o alla natura della creazione spezzerà un intero sistema di credenze, una concezione del mondo di base, e quindi, come risultato finale, l’esperienza di sopravvivenza del suo cervello.

Cosa tutto ciò implica per gli scettici

I pensatori scettici devono rendersi conto che, dato il valore delle credenze per la sopravvivenza, qualunque prova che smentisca una di queste credenze raramente (o addirittura mai) sarà in grado di cambiare la credenza suddetta, persino in persone “altrimenti intelligenti”. Per cambiare effettivamente delle credenze, gli scettici devono considerare il loro valore per la sopravvivenza, e non solo quello relativo all’esattezza dei dati. Ciò ha diverse implicazioni.

In primo luogo, gli scettici non devono aspettarsi che le credenze cambino semplicemente perché si sono presentati dati che le smentiscono, o pensare che la gente è stupida perché le sue credenze non cambiano. Devono evitare di diventare critici, o di sminuire il loro interlocutore, come reazione alla resilienza delle credenze. Non è detto che la gente sia idiota solo perché le loro credenze non cedono alle nuove informazioni. I dati sono sempre necessari, ma raramente sono sufficienti.

In secondo luogo, gli scettici devono imparare a discutere non solo dell’argomento specifico cui si riferiscono i dati, ma anche delle implicazioni che il cambiamento delle credenze ad esso correlate può avere per la visione del mondo di base e per il sistema di credenze degli individui cui ci si rivolge. Sfortunatamente, rivolgere la propria attenzione ai sistemi di credenze è un compito molto più complicato e pauroso di quanto non lo sia presentare semplicemente delle prove contrarie. Gli scettici devono discutere il significato dei loro dati alla luce della necessità, da parte del cervello, di conservare il suo sistema di credenze per mantenere un senso di totalità, coerenza e controllo nella vita. Gli scettici devono abituarsi a discutere su questioni di filosofie di base, nonché dell’ansia esistenziale che viene scatenata ogni volta che le credenze sono messe alla prova. Il compito è altrettanto filosofico e psicologico di quanto sia scientifico e basato sui fatti.

In terzo luogo, il punto forse più importante: gli scettici devono sempre tenere in considerazione quanto sia duro per la gente vedere le proprie credenze messe a dura prova. Ciò costituisce letteralmente una minaccia al senso di sopravvivenza del loro cervello. È perfettamente normale che in situazioni simili la gente si metta sulla difensiva. Il cervello sente che sta combattendo per la sua vita. È un peccato che ciò possa produrre un comportamento provocatorio, ostile e persino violento, ma è anche comprensibile. La lezione per lo scettico è dunque la seguente: capire che le persone, di norma, non hanno l’intenzione deliberata di essere cattive, contrarie, spigolose o stupide quando vengono messe alla prova.

È una lotta per la sopravvivenza. L’unica maniera efficace di comportarsi con questo tipo di atteggiamento difensivo è quello di raffreddare la contesa invece di farla scaldare. Diventare sarcastico o sminuire l’avversario non fa altro che dare all’atteggiamento difensivo dell’altro una buona presa per iniziare uno scambio reciproco di frecciate che giustifica la sua sensazione di essere minacciato (“Certo che lottiamo contro gli scettici! Guarda che razza di stronzi insensibili e ostili che sono!”), anziché generare un’attenzione continua al tema della verità.

Gli scettici vinceranno la guerra per le credenze razionali solo se continueranno, anche di fronte a reazioni di difesa da parte dell’interlocutore, ad usare un comportamento che sia impeccabilmente dignitoso e pieno di tatto, e che comunica rispetto e saggezza.

Affinché i dati parlino ad alta voce, gli scettici devono evitare di urlare.

Infine, dovrebbe essere di conforto agli scettici il ricordare che la parte veramente stupefacente di tutto ciò non è che ci siano così poche credenze che cambiano, o che la gente sia così irrazionale, ma che vi siano comunque almeno alcune credenze che cambiano. L’abilità degli scettici di alterare le loro credenze come reazione ai dati è un autentico dono; un’abilità unica, potente e preziosa. È una genuina “funzione cerebrale superiore”, nel senso che va contro alcuni dei bisogni biologici più naturali e più basilari. Gli scettici devono apprezzare la potenza e, il pericolo che questa abilità dona loro. Essi possiedono una capacità che può terrorizzare, cambiare la vita, e che in grado di provocare dolore. Quando viene rivolta verso gli altri, questa abilità dovrebbe essere utilizzata con cautela e con saggezza. Mettere alla prova le altrui credenze è qualcosa da farsi sempre con attenzione e compassione.
Gli scettici devono ricordarsi di tenere sempre d’occhio il loro scopo. Devono guardare lontano. Devono cercare di vincere la guerra per le credenze razionali, non di impegnarsi in una lotta all’ultimo sangue su una particolare battaglia con una particolare persona o con una particolare credenza. Non solo i metodi ed i dati degli scettici devono essere puliti, diretti e privi di distorsioni: anche il loro contegno ed il loro comportamento devono esserlo.


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Note del traduttore

[a] L’originale ha “belief”, traducibile come: credo, credenza, convinzione, fede. Per correttezza filologica – e perché in effetti è la traduzione migliore in questo contesto – ho preferito l’utilizzo del termine “credenza” in tutto l’articolo. Toglietevi dunque dalla testa l’omonimo mobile.

[b] Il termine “resilient” è utilizzato nell’originale. Lo Zingarelli recita:
Resilienza: Capacità di un materiale di resistere ad urti improvvisi senza spezzarsi.
Resiliente: Che ha resilienza. C’è una sottile differenza rispetto a resistenza, che è la capacità di non lasciarsi rompere in genere: resilienza è riferito specificamente alla resistenza all’urto. Data questa specificità, ho preferito conservare il termine originale, nonostante la sua tecnicità, e darne qui la definizione.

[c] Intesa come metafora, questa frase può anche essere letta come un discreto esempio di quanto appena esposto. Infatti, quando negli anni ’70 si scoprì quel famoso soldato giapponese che da 30 anni combatteva ancora la Seconda Guerra Mondiale, ci volle del bello e del buono per convincerlo che la guerra era finita.

[d] In questo contesto, “esperienza” deve essere riferito al concetto di “sperimentare coerenza ecc. nel mondo” riportato poche righe sopra.

[*] “Dallo stile sembra di Michael Shermer, l’editore di Skeptic” (segnalazione filologica di Paolo Ottaviani).

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venerdì 3 maggio 2013

Ktema e paesaggio sonoro: conversazioni con Franco Serblin



Figura e sfondo, in un campo sonoro,  creano un paesaggio sonoro

La figura emerge, creata da uno stimolo sonoro in contrasto al suo sfondo.
L'ascoltatore, costantemente coinvolto dal rapporto emozionale con il suono, percepisce in modo mutevole le relazioni figura/sfondo che si alternano nello spazio.
Dall'interno di un avvilupparsi di informazioni sonore secondarie, inquadrabili nel concetto di base sonora, scaturisce quindi  lo stimolo che ci colpisce, l'evento principale, i canti, gli strumento, le voci, i suoni che, stagliandosi in modo chiaro e netto, si sovrappongono allo sfondo.
In una produzione musicale, La dinamica dei suoni, il piano ed il forte, contribuiscono ulteriormente al fine di evidenziare gli eventi sonori più importanti, rifacendosi alla tecnica della prospettiva visiva.
Nella pittura prospettica, le regole di costruzione di un quadro privilegiano come punto di vista ideale quello dello spettatore, in funzione del quale si dipana la narrazione rappresentata.
Gli oggetti sono messi in fila ed ordinati in relazione alla loro distanza dall'osservatore.

Altrettanto, in musica, i suoni vengono ordinati secondo la loro enfasi dinamica, all'interno dello spazio virtuale del paesaggio sonoro.

L'esperienza di una spazialità tridimensionale, ci permette di accedere alla sensazione del realismo.
L'istintiva ricerca del suono in primo piano, collocato in un'ideale proscenio, tende a mettere in prospettiva il caos brulicante dei suoni meno importanti, ostacolo all'identificazione dell'oggetto sonoro.
il modello teorico del concerto quindi, è finalizzato alla  percezione del solista, del gruppo concertante e dell'orchestra, attraverso una precisa collocazione prospettica integrata da artifici dinamici.

La musica, con un breve percorso, trasferisce l'ispirazione del compositore raggiungendo rapidamente l'ascoltatore attraverso i musicisti che trasformano le note scritte in vibrazioni aeree per mezzo dei loro strumenti.

La musica dovrà invece, per essere riprodotta, percorrere un lungo e tortuoso cammino prima di raggiungere l'orecchio dell'ascoltatore.
Dovrà essere prima registrata, incanalata attraversando microfoni, cavi, processori e varie apparecchiature per affrontare alla fine il percorso inverso della riproduzione, attraverso ulteriori apparecchiature, in un nuovo ambiente d'ascolto.
Durante le fasi di ripresa, per sua natura, Il microfono  tenderà ad ingigantire il particolare, rispetto all'ampiezza dello spazio in cui esso verrà collocato.
Enfatizzando il particolare, il microfono falsificherà quindi la prospettiva realistica.
Ma nella proposizione sonora, quale può essere il significato della parola "realismo", quale il concetto di "oggettività" ?
Il microfono, caratterizzando un'ambientazione, non potrà mai riprodurre una spazialità assoluta od equivalente alla nostra esperienza del rapporto con le cose nello spazio, 
Filtraggi ed  ambientazioni astruse, contribuiranno ulteriormente ad allontanarci dall'evento originario registrato. 
 L'enfatizzazione del timbro,  legata all'ingrandimento determinato dal sistema di registrazione, indebolirà drasticamente l'ideale della possibilità di riproposizione di un suono naturale.
Perderà quindi di significato, nella ricerca di una riproduzione fedele, l'idea della riduzione o della perdita di alcune qualità fondamentali  del suono originario, in quanto già pesantemente alterate dal sistema di trascrizione.

E' plausibile, quindi,  un concetto di suono originario?

La sala da concerto, laddove nasce l'evento, arricchisce già essa stessa con il suo colore e con la sua particolare ed unica impronta la stessa performance originale.
Raramente o quasi mai un concerto è caratterizzato da quell'ambita neutralità, tanto ricercata come finalità di una corretta e credibile riproduzione.
Appare quindi un paradosso il concetto della perfetta apparecchiatura, ipoteticamente capace di riprodurre l' ipotetico evento originario.
Non solo questa apparecchiatura non esiste, ma ha ancor meno senso l'idea che la sua esistenza possa avere una funzione ed un significato.
Non può esistere il concetto di originalità di un suono e della musica!
Il suono di un'orchestra, la voce di un cantante, sono imprescindibili dalla firma a loro apposta dall'ambiente dove si sono espressi.
Non può esistere un suono disintegrato dall'ambiente in cui è stato prodotto, pertanto esso non è replicabile una seconda volta in un ambiente differente.
Potremmo paragonare il suono ai colori.
Esiste un colore in mancanza di luce?
Possono esistere in natura due condizioni luci identiche al fine di riprodurre due volte lo stesso colore?
La musica non è una cosa o un oggetto, la musica è un evento unico.
Riprodurre la musica non può quindi che equivalere alla proposizione di un nuovo, secondo evento,
che, in quanto secondo, non può non essere, necessariamente, differente dal primo.
Concetto lucidamente espresso dal filosofo greco Eraclito: niente si ripete due volte in modo identico, In un fiume non ci si bagna due volte nella stessa acqua.
E' quindi il puro concetto di bellezza , l'obiettivo da perseguire nel secondo evento di una riproduzione musicale, e,  non essendo l'arte una pedissequa riproduzione della natura, nulla vieta che una riproduzione , esattamente come nelle arti visive, possa coinvolgere l'ascoltatore in modo ancora più intenso ed evocativo rispetto all'evento originale.
La finalità di Un sistema di riproduzione audio dovrebbe quindi quella di creare un nuovo paesaggio sonoro, assecondando le necessità percettive dell'ascoltatore.

Una nuova orchestra con i musicisti rappresentati da qualsiasi cosa emetta, manipoli o produca uno stimolo sonoro.
Non soltanto una pura, a volte sterile, perfezione tecnica riconoscibile solo dagli esperti, ma, soprattutto,  un intimo piacere d'ascolto, spesso apprezzato maggiormente da ascoltatori più semplici.

W.A. Mozart non ha avuto timori di dichiarare apertamente di aver giocato d’astuzia col pubblico, utilizzando le alternanze o le sovrapposizioni di facile e difficile, di udibile e non udibile.
La sua finalità nel coinvolgere gli ascoltatori, è sintetizzata in una semplice frase, in una lettera al padre Leopold nel 1782:  

 ....Ci sono, nei concerti, passaggi da cui solo i conoscitori trarranno soddisfazione, ma in modo che i non conoscitori resteranno contenti senza sapere il perché.....

giovedì 2 maggio 2013

Franco Serblin Ktema: con entusiasmo, per l'entusiasmo.



Come può la ragione governare l'entusiasmo? Un poeta traccia dapprima l'ordito della sua opera; e la ragione guida la sua penna. Ma, se vuole animare i personaggi e infondere loro la forza delle passioni, allora l'immaginazione si accende e subentra l'entusiasmo; è come un corsiero che prenda la mano, ma corra lungo una strada regolarmente tracciata.

(Voltaire, Dizionario filosofico)


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Differenti condizioni logistiche impediscono, di fatto, la formulazione di un'esatta e scientifica trattazione dell'importante aspetto che riguarda il rapporto fra diffusore ed ambiente.
Le modalità di installazione in ambiente del mio progetto Ktema, non si discostano genericamente,dalle ormai universalmente accettate regole canoniche che prevedono una certa distanza del diffusore dalle pareti laterali e da quella posteriore alfine di preservare la correttezza timbrica, il senso della profondità e ridurre l'insorgere di eventuali colorazioni.
Non mancano certamente  trattazioni di ogni genere, facilmente consultabili, riguardo ogni parametro teorico sulla corretta installazione di un sistema di riproduzione musicale in un determinato ambiente.
Sarebbero però utili, a mio parere, alcune considerazioni filosofiche su quale debba essere la finalità di una buona installazione ed a quale ottimale risultato essa debba preludere, come pure, al di la di un'ovvia valutazione soggettiva, quale particolare obiettivo abbia  ispirato le scelte di alcune soluzioni tecniche del mio progetto.

Molti degli aspetti del progetto Ktema,  la guida d'onda per le basse frequenze, l'eliminazione del parallelismo delle pareti, la ridottissima sezione frontale , la scelta di quattro vie con due midrange, la particolare attenzione a soluzioni e dettagli apparentemente secondari come il crossover, i cablaggi, la componentistica passiva, sembrano, come dovrebbe,  essere stati finalizzati all'ottimizzazione o, quantomeno, ad una corretta  implementazione di oggettivi parametri elettroacustici.
La formale correttezza  di  ogni soluzione tecnica viene abitualmente  ritenuta come condizione necessaria per la ricerca di una equilibrata e lineare riproduzione del segnale, per la massima  precisione della ricostruzione spaziale, per la neutralità del bilanciamento tonale e per la massima raffinatezza del dettaglio musicale.
Il risultato è spesso un riproduttore di musica formalmente ineccepibile che potrebbe, però, essere giudicato da un certo tipo di ascoltatore come eccessivamente controllato, "troppo" serio !
Gli ascoltatori orientali preferiscono, abitualmente, sistemi di riproduzione che li coinvolgano emotivamente come l'abbraccio di  amico o un'amante.
Quando un appassionato giapponese discute di un componente audio, si esprime e si comporta  come un direttore d'orchestra con uno dei suoi musicisti.
Diversamente  un americano o un europeo, prioritariamente, sembra ricercare l'accuratezza e la precisione della riproduzione come condizione necessaria affinchè  se ne percepisca la verosimiglianza.
Con le espressioni "You are there" e "just like live",  gli occidentali esprimono  la sensazione di essere fisicamente presenti all'avvenimento, sensazione che associano all'estrema accuratezza della riproduzione.

Ma è realmente sufficiente una riproduzione accurata perchè si crei automaticamente un'emozione?
A mio parere, no.
Una fotografia non è necessariamente più coinvolgente di un dipinto.
Oggi, davanti ad una riproduzione musicale, un appassionato inconsciamente si chiede:
Sono emotivamente coinvolto dal messaggio musicale?
Ascoltare questa  musica mi provoca un particolare piacere ?
Che tipo, che qualità, quanta emozione il sistema di riproduzione riesce a trasferirmi?
Ecco, forse non  basta più  la sensazione di essere presente all'evento, non è più sufficiente che una riproduzione sia credibile e verosimile, è necessario che la musica  metta in comunicazione, attraverso l'esecutore, il cuore dell'ascoltatore con una realtà trascendente.
Nessun dato, nessuna caratteristica tecnica  potrà mai specificare se questo trasporto possa avvenire o meno.
Potremo acquisirlo soltanto emotivamente, attraverso un'esperienza diretta.
Forse risulta limitante, oggi,   progettare soltanto per l'accuratezza, per il dettaglio, per la precisione e per la linearità.
Nel migliore dei casi saranno soltanto questi i parametri che ,forse, riusciremo ad ottenere.
Espandere le priorità del progetto, progettare  per la bellezza e per il cuore, è un imperativo affinchè la verità fotografica lasci il posto alla verità emozionale, affinchè questa possa generare entusiasmo.
Nel riprodurre musica, ogni operazione, dalla scelta delle apparecchiature complementari alla modalità di installazione e quant'altro, dovrebbe essere esclusivamente finalizzata al raggiungimento dell'entusiasmo, mio originario e prioritario obiettivo.

Franco Serblin

martedì 9 aprile 2013

Franco Serblin 1939 - 2013





It takes a big man to love a small speaker

Ci vuole un grande uomo per amare un piccolo diffusore

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Bellezza del limite e qualità dell'illusione.

La tecnica bonsai, nata in Cina e perfezionata in Giappone, è legata a quello che gli orientali chiamano seishi: l'arte di dare una forma, di coltivare, il praticare le tecniche più svariate sempre nel rispetto della pianta.
 I bonsai sono dunque natura viva, piccoli alberi che malgrado le dimensioni contenute esprimono tutta l'energia che è racchiusa in una pianta grande.
Il Bonsai è un'opera d'arte mai finita: la pianta continua a crescere e modificarsi e bisogna quindi accudirla in continuazione.
È importante che un bonsai evochi in chi lo guarda una sensazione di forza, maturità e, soprattutto, di profonda pace e serenità.
Fermiamoci ora un attimo e chiediamoci: Il Bonsai è un'accurata riproduzione di un albero vero ?
Certamente no,  non ci sono insetti ne uccelli che si posano sui suoi rami, non è parte di un ecosistema, e,  poiché lo si osserva  dall'alto in basso, non riproduce la stessa prospettiva  di un vero albero. 
Eppure il nostro Bonsai ci offre la possibilità di avere una particolare relazione con il vero albero che in piccolo rappresenta, e questa relazione, per essere mantenuta, ha bisogno di continue e particolari cure perché esso possa  sempre continuare ad illuderci della sua esser, suo modo, vero.
La creazione e la cura di un Bonsai  è lo stesso tipo di processo del creare musica nelle nostre case.
 Miniaturizzare per espandere è questo il paradosso dell'arte: quando la musica viene miniaturizzata, e lo è sempre ed in ogni caso, essa può anche acquisire  ed espandere intensità e pathos in modo indipendente dalla nuova dimensione acquisita.
Dovremmo evolverci,  dall' utopica aspirazione a ricreare l'evento reale in casa,  alla raggiungibile realtà  di un sublime Bonsai musicale.
Mi ha sempre affascinato il ricreare,  dal piccolo, la capacità evocativa del grande.  
Ho da sempre intuito, ad onta delle fisiche limitazioni,  le dirompenti potenzialità del piccolo diffusore, dei piccoli altoparlanti, senza magari avere una razionale coscienza del perché di questa potenzialità che, stranamente allora, costantemente non smetteva mai di convincermi.
Oggi il tutto mi appare più razionale: è la bellezza della limitazione.
Senza limitazione non c'è arte, sono ben conosciute le limitazioni dei piccoli diffusori e ci si aspetta poco da loro, ma  è forse questo che li rende magici, la loro capacità di ricreare attraverso una sublime riproduzione della gamma media, una magia musicale che spesso è sconosciuta a sistemi di grande dimensione ed estensione.
Compito del progettista, ed in seguito dell'utilizzatore , il saper estrarre emozioni dall'apparente poco a disposizione: mai , in qualsiasi forma d'arte, il dover miniaturizzare ha rappresentato un limite nel tentativo di replicare l'essenza del reale, semmai è vero il il contrario.
Da un'iniziale e semplicistica ricerca della fedeltà assoluta all'evento originale, oggi la scienza della riproduzione  audio tende sempre più verso la ricreazione di un  evento  generatore di emozione e coinvolgimento, una forma d'arte che vede l'appassionato utilizzatore nella doppia veste di creatore e fruitore dell'opera.
Il diffusore acustico acquisisce un ruolo fondamentale nel tentativo di tradurre un evento in un'emozione. 
E' inutile ribadire che ogni diffusore è un compromesso.
Ho ascoltato ed utilizzato recentemente le Quad ESL 57 : come si fa a non ammettere che hanno delle limitazioni ? Eppure, ancora oggi è un riferimento assoluto per la naturalezza della gamma media !
Tutti le tipologie di diffusori sono  un compromesso:
Lo  sono i grandi diffusori a tromba, seri compromessi…. ma fanno qualcosa che altri non possono fare !
Lo sono i monovia, seri compromessi…ma anch'essi fanno qualcosa che altri non possono fare!
Se creiamo grandi diffusori dobbiamo aver a che fare con grandi mobili che assorbono energia e problematiche di coerenza per la molteplicità delle vie.
Se cerchiamo alta efficienza, perdiamo profondità alle basse eci esponiamo a potenziali colorazioni.
Sopratutto non dimentichiamo il problema principale, la relazione fra ambiente e diffusore, una croce per diffusori a gamma estesissima.
Tutti i diffusori hanno una loro personalità che non è , però, separabile  da quella delle apparecchiature complementari e dall'ambiente in cui si esprimono.
Accordare il tutto è il vero problema , non la tecnologia di questo o quell'altro componente.
L'accordo è il fondamento della musica, l'accordarura è il fondamento dello strumento musicale, l'accordatura è altrettanto il fondamento del riproduttore di musica che sia il singolo componente o l'intero sistema.
Accordo del crossover, accordo degli altoparlanti, accordo del cabinet, accordo della qualità della componentistica, una riproduzione musicale  che vuol coinvolgere l'ascoltatore non  può prescindere dall'accordo della singola e  della molteplicità delle parti.
La finalità ?
La qualità dell'illusione !
Paradossale che spesso la qualità dell'illusione venga  compromessa proprio dal tentativo di avvicinarsi alla realtà, come  il voler , ad esempio, convertire al colore un film o una foto  in bianco e nero !
Un'immagine in bianco e nero può avere una sua forza evocativa che non dovrebbe poter avere per le sue ovvie limitazioni.
Anche qui l'accordo è fondamentale: la sottile analisi e messa a punto delle gradazioni tonali, il controllo delle varie parti del fotogramma, la perfetta coesione dei grigi, è generata dall'ottimale accordatura di ogni elemento tecnico, ottiche, carta, sviluppo, stampa etc.
Una variazione di un dettaglio e tutto deve essere rivisto!
C'è interdipendenza fra il processo fotografico ed il procedimento di assemblaggio di un oggetto o un sistema audio.
Tutto è finalizzato alla creazione di una metafora, non certo della realtà o del realismo.
Ed è proprio la qualità della metafora che conta!
La necessità di una limitazione affinché l'immaginazione possa emergere e dominare è proprietà fondamentale dell'essenza della metafora !

Franco Serblin


p.s.

Con Franco, da sempre, fin dalla fondazione della Sonus Faber nella prima metà degli anni 80, abbiamo condiviso alcuni basilari principi riguardo l'arte della riproduzione musicale.
Questo articolo, elaborato e redatto insieme, rappresenta la summa del suo pensiero, ed  era destinato ad essere pubblicato nella brochure dei diffusori Accordo, la sua ultima opera, attraverso la quale aveva deciso di ripercorrere la sua iniziale strada di semplicità e bellezza.
Questo scritto, pur rappresentando perfettamente il suo pensiero e la filosofia che lo aveva da sempre ispirato, fu  reputato da Franco, per la sua innata modestia ed umiltà,  eccessivamente pretenzioso,  e non volle quindi che fosse pubblicato.


Giuseppe Scardamaglia