lunedì 3 giugno 2013

Credere o non credere ?




Credere o non credere?

Perché le cattive credenze non muoiono ?


Autore ignoto[*]
Traduzione di Luca Bergamasco
Originale trasmesso da Marcus Prometheus

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Dato che le credenze sono progettate per incrementare la nostra capacità di sopravvivenza, sono biologicamente progettate per opporre una forte resistenza ai cambiamenti. Per cambiare le credenze, gli scettici devono agire anche sulle questioni cerebrali “di sopravvivenza” relative a significati ed implicazioni, oltre a discutere dei dati.

Dato che un punto base sia del pensiero scettico che della ricerca scientifica è che le credenze possono essere errate, spesso a scettici e scienziati appare strano ed irritante il fatto che le credenze di così tante persone non cambino nemmeno di fronte alla negazione offerta dall’evidenza dei fatti. Ci chiediamo: come può la gente mantenere delle credenze che contraddicono i dati empirici?

Questa confusione può produrre nei pensatori scettici una disgraziata tendenza a sminuire e svilire quelle persone le cui credenze non cambiano in conseguenza dell’evidenza dei fatti. Si possono vedere queste persone come inferiori, stupide o pazze.

Questo atteggiamento nasce dal fatto che gli scettici non hanno capito lo scopo biologico delle credenze, né il fatto che esse hanno una necessità neurologica di essere resilienti[b] ed ostinatamente resistenti al cambiamento. Il fatto è che, nonostante tutto il rigore del loro pensiero, molti scettici non hanno una comprensione chiara o razionale di che cosa siano le credenze e del perché persino quelle fallaci non muoiono facilmente. Comprendere lo scopo biologico delle credenze può aiutare gli scettici ad essere molto più efficienti nella loro sfida alle credenze irrazionali e nella loro comunicazione di conclusioni scientifiche.

Lo scopo primario del nostro cervello è quello di mantenerci vivi. Certamente il cervello fa ben più di ciò, ma la sopravvivenza è sempre il suo scopo fondamentale, ed è sempre posta in cima alla lista delle priorità. Se subiamo una ferita tale che al nostro corpo resta soltanto l’energia sufficiente a sostenere o la coscienza, o il battito cardiaco, il cervello non ha alcun problema a scegliere: ci fa entrare in coma (sopravvivenza prima della coscienza) piuttosto che lasciarci coscienti in una spirale mortale (coscienza prima della sopravvivenza).

Dato che l’utilità fondamentale di ogni attività cerebrale è quella della sopravvivenza, l’unico modo di comprendere accuratamente qualunque funzione cerebrale è quello di esaminarne il valore come strumento di sopravvivenza. Persino la difficoltà di trattamento di alcuni disordini comportamentali come l’obesità e la tossicodipendenza può essere compresa solo esaminando il loro rapporto con la sopravvivenza. Una qualunque riduzione dell’apporto calorico, o della disponibilità di una sostanza da cui una persona è dipendente, è sempre percepita dal cervello come una minaccia alla sopravvivenza. Il risultato è che il cervello difende con forza l’eccesso di alimentazione o l’abuso della suddetta sostanza, producendo quei fenomeni familiari (il mentire, lo sgattaiolare, il negare, il razionalizzare, ed il giustificarsi) che di norma mostrano le persone che soffrono di questi disordini.

Uno dei principali strumenti che il nostro cervello ha a disposizione per assicurare la nostra sopravvivenza sono i nostri sensi. È ovvio che dobbiamo essere in grado di percepire un pericolo con accuratezza per poter prendere quelle misure progettate per tenerci al sicuro. Per sopravvivere dobbiamo essere in grado di vedere il leone che ci carica quando usciamo dalla nostra caverna, o sentire l’intruso che si infila in casa nostra nel mezzo della notte.

I soli sensi sono però inadatti come sensori di pericolo efficaci, perché hanno delle grosse limitazioni sia in ampiezza che in portata. Possiamo avere un contatto sensoriale diretto solo con una piccola porzione del mondo per volta. Il cervello ritiene che questo sia un problema significativo, in quanto persino la nostra normale vita quotidiana richiede che noi entriamo ed usciamo continuamente dal campo delle nostre percezioni del mondo così com’è qui ed ora. Entrare in un territorio che non abbiamo visto in precedenza, e del quale non abbiamo mai sentito parlare, ci mette nella pericolosa posizione di non avere alcun preavviso di potenziali pericoli. Se cammino in un edificio sconosciuto in un quartiere malfamato della città, le mie probabilità di sopravvivenza diminuiscono, perché non ho alcun modo di sapere se il tetto è sul punto di collassare, o se un uomo armato mi sta aspettando all’ingresso.

Qui entrano in gioco le credenze. “Credenza” è il nome che diamo allo strumento di sopravvivenza del cervello che è progettato per incrementare e migliorare la funzione di identificazione dei pericoli svolta dai nostri sensi. Le credenze estendono la portata dei nostri sensi in modo che noi possiamo più facilmente scoprire pericoli, e quindi incrementare le nostre probabilità di sopravvivenza quando ci inoltriamo in un territorio non familiare. In sintesi, le credenze hanno per il cervello la funzione di “sensori di pericolo a lungo raggio”.

Da un punto di vista funzionale, il cervello tratta le credenze come “mappe” interiori di quelle porzioni del mondo con le quali non abbiamo un contatto sensoriale diretto. Stando seduto nel mio soggiorno non posso vedere la mia macchina. Anche se l’ho parcheggiata nel vialetto di fianco a casa un po’ di tempo fa, utilizzando solo i dati sensoriali immediati io non so se sia ancora lì. Il risultato è che, in questo momento, i dati sensoriali mi sono di ben poca utilità per quanto concerne la mia macchina. Per trovare la macchina con un minimo livello di efficienza, il mio cervello deve ignorare i dati sensoriali attuali (i quali, se dovessimo basarci solo su di essi in senso stretto, non solo non mi aiutano a localizzare la macchina, ma in effetti mi indicano che la macchina non esiste più) e rivolgerci invece alla mappa interiore della dislocazione della macchina. Basandosi sulla credenza piuttosto che sui dati sensoriali, il cervello può “sapere” qualcosa del mondo con cui non ho alcun contatto sensoriale immediato. Ciò permette al cervello di “estende” la sua conoscenza del mondo ed il suo contatto con esso.

La capacità della credenza di estendere il contatto con il mondo al di là della portata dei sensi immediati incrementa in sostanza la nostra capacità di sopravvivere. Un cavernicolo ha capacità di sopravvivenza assai maggiori, se è in grado di conservare la credenza che esista un pericolo nella giungla anche quando i suoi dati sensoriali non indicano alcuna minaccia immediata. Un agente di polizia sarà notevolmente più al sicuro se può continuare a credere che la persona che ha fermato per un’infrazione al codice stradale potrebbe essere uno psicopatico armato con un impulso ad uccidere, anche se ha un aspetto in apparenza innocuo.

Dato che le credenze non richiedono dati sensoriali immediati per poter fornire al cervello informazioni molto utili alla sopravvivenza, esse hanno anche la funzione di sopravvivenza addizionale di fornire informazioni su quei campi della vita che non hanno una relazione diretta con delle entità sensoriali. Questa è l’area dell’astrazione e dei principii, che comprende cose come “motivi”, “cause” e “significati”. Io non posso vedere o sentire il “motivo” chiamato “area di bassa pressione” che fa sì che un temporale si scateni sulla sfilata che ho organizzato, pertanto la mia capacità di credere che il motivo è la bassa pressione mi viene in soccorso. Se dovessi basarmi solo ed esclusivamente sui sensi per determinare la causa della tempesta, non potrei comprendere perché c’è stata. Per quanto ne so potrebbe essere stata portata da folletti volanti invisibili che devo abbattere con la doppietta se voglio far sparire le nuvole. Pertanto, il fatto che il mio cervello faccia affidamento sulla mia “credenza” nel motivo chiamato “bassa pressione” piuttosto che sui dati sensoriali (o, come nel caso della mia macchina, sull’assenza di dati sensoriali) mi è d’aiuto per la mia sopravvivenza: evito infatti un’esperienza di carcerazione con miriadi di personaggi pericolosi che seguirà al mio arresto per aver sparato in aria a quei piccoli rompiscatole di folletti.

La resilienza delle credenze
Dato che sia i sensi che le credenze sono strumenti di sopravvivenza, e che si sono evoluti in modo da incrementare reciprocamente le loro potenzialità, il cervello li considera fornitori di informazioni per la sopravvivenza separati, ma di pari importanza. La perdita di uno qualsiasi dei due ci mette in pericolo. Senza i sensi non potremmo sapere alcunché del mondo compreso nel nostro campo percettivo. Senza le credenze non potremmo sapere alcunché del mondo al di fuori dei nostri sensi, o di significati, motivi o cause.
Ciò vuol dire che le credenze sono progettate in modo da funzionare indipendentemente dai dati sensoriali. In effetti, l’intero valore, al fine della sopravvivenza, delle credenze si basa proprio sulla loro abilità di persistere di fronte ad un’evidenza fattuale che le contraddice. Non si presume che le credenze cambino facilmente o semplicemente come reazione a prove che le smentiscono.
Se lo facessero, sarebbero pressoché inutili come strumento di sopravvivenza. Il nostro cavernicolo non durerebbe molto se la sua credenza nei potenziali pericoli della giungla evaporasse ogni volta che le sue informazioni sensoriali gli dicessero che non c’è alcuna minaccia immediata. Un agente di polizia incapace di credere alla possibilità che ci sia un assassino in agguato dietro ad un’apparenza inoffensiva, potrebbe essere facilmente ferito od ucciso.

Per quanto riguarda il cervello, non c’è alcun bisogno che i dati e le credenze vadano d’accordo.

Entrambi questi strumenti si sono evoluti per incrementare reciprocamente la loro efficienza e per supportarsi l’un l’altro entrando in contatto con differenti porzioni del mondo. Sono progettati per essere in grado di essere in disaccordo. Ecco perché gli scienziati possono credere in Dio, e persone che di norma sono piuttosto ragionevoli e razionali possono credere in cose per le quali non c’è alcun dato credibile, come dischi volanti, telepatia e psicocinesi.

Quando i dati e le credenze entrano in conflitto, il cervello non dà automaticamente la preferenza ai dati. Ecco perché le credenze – persino credenze dannose, credenze irrazionali, credenze stupide o credenze folli – spesso non muoiono di fronte a prove che le smentiscono. Al cervello non importa nulla se le credenze combaciano o meno con i dati. Gli importa che la credenza sia utile alla sopravvivenza. Punto. Pertanto, mentre la parte scientifica e razionale del cervello può ritenere che i dati dovrebbero prevalere sulle credenze che li contraddicono, ad un livello d’importanza più fondamentale il cervello non ha questa tendenza. È estremamente reticente a buttare via le sue credenze. Come un vecchio soldato con un vecchio fucile che non è completamente convinto che la guerra sia finita, spesso il cervello rifiuta di consegnare le armi anche se i dati dicono che dovrebbe farlo.

Credenze “non consequenziali”
Anche quelle credenze che non sembrano connesse in maniera chiara o diretta alla sopravvivenza (come la capacità del nostro cavernicolo di credere a potenziali pericoli) vi sono in realtà strettamente connesse. Questo è possibile perché le credenze non esistono in maniera indipendente o in un vuoto. Sono interrelate tra loro in un sistema molto complesso di mutui incastri che crea la visione di base che il cervello ha del mondo. È su questo sistema che il cervello fa affidamento per sperimentare coerenza, controllo, coesione e sicurezza nel mondo. Il cervello deve conservare questo sistema intatto per percepire che lo scopo della sopravvivenza è perseguito con successo.
Ciò significa che anche piccole credenze non consequenziali possono essere parte integrante dell’esperienza di sopravvivenza del cervello tanto quanto quelle credenze che sono connesse alla sopravvivenza in maniera “ovvia”. Pertanto, il tentativo di cambiare una qualunque credenza (non importa quanto possa sembrare insignificante o stupida) può produrre un’increspatura in tutto il sistema, ed avere l’effetto finale di minacciare l’esperienza di sopravvivenza del cervello. Ecco perché tanto spesso la gente è portata a difendere persino quelle credenze he possono sembrare insignificanti o collaterali. Un creazionista non può tollerare di credere all’accuratezza dei dati che indicano la realtà dell’evoluzione, non a causa dell’accuratezza o meno dei dati stessi, ma perché cambiare anche solo una credenza relativa a questioni bibliche o alla natura della creazione spezzerà un intero sistema di credenze, una concezione del mondo di base, e quindi, come risultato finale, l’esperienza di sopravvivenza del suo cervello.

Cosa tutto ciò implica per gli scettici

I pensatori scettici devono rendersi conto che, dato il valore delle credenze per la sopravvivenza, qualunque prova che smentisca una di queste credenze raramente (o addirittura mai) sarà in grado di cambiare la credenza suddetta, persino in persone “altrimenti intelligenti”. Per cambiare effettivamente delle credenze, gli scettici devono considerare il loro valore per la sopravvivenza, e non solo quello relativo all’esattezza dei dati. Ciò ha diverse implicazioni.

In primo luogo, gli scettici non devono aspettarsi che le credenze cambino semplicemente perché si sono presentati dati che le smentiscono, o pensare che la gente è stupida perché le sue credenze non cambiano. Devono evitare di diventare critici, o di sminuire il loro interlocutore, come reazione alla resilienza delle credenze. Non è detto che la gente sia idiota solo perché le loro credenze non cedono alle nuove informazioni. I dati sono sempre necessari, ma raramente sono sufficienti.

In secondo luogo, gli scettici devono imparare a discutere non solo dell’argomento specifico cui si riferiscono i dati, ma anche delle implicazioni che il cambiamento delle credenze ad esso correlate può avere per la visione del mondo di base e per il sistema di credenze degli individui cui ci si rivolge. Sfortunatamente, rivolgere la propria attenzione ai sistemi di credenze è un compito molto più complicato e pauroso di quanto non lo sia presentare semplicemente delle prove contrarie. Gli scettici devono discutere il significato dei loro dati alla luce della necessità, da parte del cervello, di conservare il suo sistema di credenze per mantenere un senso di totalità, coerenza e controllo nella vita. Gli scettici devono abituarsi a discutere su questioni di filosofie di base, nonché dell’ansia esistenziale che viene scatenata ogni volta che le credenze sono messe alla prova. Il compito è altrettanto filosofico e psicologico di quanto sia scientifico e basato sui fatti.

In terzo luogo, il punto forse più importante: gli scettici devono sempre tenere in considerazione quanto sia duro per la gente vedere le proprie credenze messe a dura prova. Ciò costituisce letteralmente una minaccia al senso di sopravvivenza del loro cervello. È perfettamente normale che in situazioni simili la gente si metta sulla difensiva. Il cervello sente che sta combattendo per la sua vita. È un peccato che ciò possa produrre un comportamento provocatorio, ostile e persino violento, ma è anche comprensibile. La lezione per lo scettico è dunque la seguente: capire che le persone, di norma, non hanno l’intenzione deliberata di essere cattive, contrarie, spigolose o stupide quando vengono messe alla prova.

È una lotta per la sopravvivenza. L’unica maniera efficace di comportarsi con questo tipo di atteggiamento difensivo è quello di raffreddare la contesa invece di farla scaldare. Diventare sarcastico o sminuire l’avversario non fa altro che dare all’atteggiamento difensivo dell’altro una buona presa per iniziare uno scambio reciproco di frecciate che giustifica la sua sensazione di essere minacciato (“Certo che lottiamo contro gli scettici! Guarda che razza di stronzi insensibili e ostili che sono!”), anziché generare un’attenzione continua al tema della verità.

Gli scettici vinceranno la guerra per le credenze razionali solo se continueranno, anche di fronte a reazioni di difesa da parte dell’interlocutore, ad usare un comportamento che sia impeccabilmente dignitoso e pieno di tatto, e che comunica rispetto e saggezza.

Affinché i dati parlino ad alta voce, gli scettici devono evitare di urlare.

Infine, dovrebbe essere di conforto agli scettici il ricordare che la parte veramente stupefacente di tutto ciò non è che ci siano così poche credenze che cambiano, o che la gente sia così irrazionale, ma che vi siano comunque almeno alcune credenze che cambiano. L’abilità degli scettici di alterare le loro credenze come reazione ai dati è un autentico dono; un’abilità unica, potente e preziosa. È una genuina “funzione cerebrale superiore”, nel senso che va contro alcuni dei bisogni biologici più naturali e più basilari. Gli scettici devono apprezzare la potenza e, il pericolo che questa abilità dona loro. Essi possiedono una capacità che può terrorizzare, cambiare la vita, e che in grado di provocare dolore. Quando viene rivolta verso gli altri, questa abilità dovrebbe essere utilizzata con cautela e con saggezza. Mettere alla prova le altrui credenze è qualcosa da farsi sempre con attenzione e compassione.
Gli scettici devono ricordarsi di tenere sempre d’occhio il loro scopo. Devono guardare lontano. Devono cercare di vincere la guerra per le credenze razionali, non di impegnarsi in una lotta all’ultimo sangue su una particolare battaglia con una particolare persona o con una particolare credenza. Non solo i metodi ed i dati degli scettici devono essere puliti, diretti e privi di distorsioni: anche il loro contegno ed il loro comportamento devono esserlo.


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Note del traduttore

[a] L’originale ha “belief”, traducibile come: credo, credenza, convinzione, fede. Per correttezza filologica – e perché in effetti è la traduzione migliore in questo contesto – ho preferito l’utilizzo del termine “credenza” in tutto l’articolo. Toglietevi dunque dalla testa l’omonimo mobile.

[b] Il termine “resilient” è utilizzato nell’originale. Lo Zingarelli recita:
Resilienza: Capacità di un materiale di resistere ad urti improvvisi senza spezzarsi.
Resiliente: Che ha resilienza. C’è una sottile differenza rispetto a resistenza, che è la capacità di non lasciarsi rompere in genere: resilienza è riferito specificamente alla resistenza all’urto. Data questa specificità, ho preferito conservare il termine originale, nonostante la sua tecnicità, e darne qui la definizione.

[c] Intesa come metafora, questa frase può anche essere letta come un discreto esempio di quanto appena esposto. Infatti, quando negli anni ’70 si scoprì quel famoso soldato giapponese che da 30 anni combatteva ancora la Seconda Guerra Mondiale, ci volle del bello e del buono per convincerlo che la guerra era finita.

[d] In questo contesto, “esperienza” deve essere riferito al concetto di “sperimentare coerenza ecc. nel mondo” riportato poche righe sopra.

[*] “Dallo stile sembra di Michael Shermer, l’editore di Skeptic” (segnalazione filologica di Paolo Ottaviani).

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