domenica 22 marzo 2009

La scienza, il suono, l'inglese e Lord Ringwood


LA SCIENZA, IL SUONO, L'INGLESE e "LORD RINGWOOD".

di Francesco Quartana


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La Musica di Osiride - …quasi un Prologo

"[...] Le stelle sbiadiscono come il ricordo nell'istante che precede l'alba. Il sole appare basso a est, dorato come un occhio aperto. Ciò che può essere nominato deve esistere. Ciò che viene nominato può essere scritto. Ciò che è scritto deve essere ricordato. Ciò che è ricordato vive. Nella terra d'Egitto va errando Osiride [...]”

dal “Libro dei morti degli antichi egizi”




Lord Carnarvon: «Riuscite a vedere qualcosa?»

Howard Carter: «Sì, cose meravigliose.»

da Howard Carter (1874-1939), “Tutankhamen”, Rizzoli (1973)




Egitto, Valle dei Re, 1323 a.c.
in un giorno di primavera

Il sole appariva basso a est, dorato come un occhio aperto, quando il sommo sacerdote entrò all’interno della tomba per controllare che nulla fosse stato dimenticato. Gli bastò dare una rapida occhiata ai vari locali per accorgersi che ogni cosa si trovava esattamente laddove era necessario che fosse.

Raggiunta la camera funeraria, si avvicinò con passo felpato allo scrigno di quarzite gialla e si chinò sui sarcofagi interni, ancora aperti, illuminandoli con la luce della lampada ad olio. Gli occhi della maschera luccicarono ed il blu lapislazzuli del contorno si accese come se il tutto vivesse di vita propria.

Non c’era ancora la piccola corona di fiori preparata dalla giovane vedova, che sarebbe stata deposta solo sopra una delle bare più esterne, ma ciò che si vedeva muoveva già a profonda commozione.

L’uomo rimase qualche istante in silenzio, disorientato dalla bellezza delle finiture e dai riflessi dell’oro, e non ebbe alcun dubbio: Osiride avrebbe accolto con somma gioia il Faraone fanciullo nel suo regno senza fine.

All’interno di quel luogo sacro, in cui ogni oggetto era stato posizionato non a caso, ma seguendo un disegno prestabilito, il sacerdote guidò l’erede del Faraone nella celebrazione del solenne “Rituale dell’apertura della bocca”, lo stesso a cui rimandavano gli splendidi dipinti alle pareti, in cui il defunto, raggiunto l’aldilà, veniva accolto dalla dea Nut e, successivamente, dal dio Osiride, pronto a cingerlo in un abbraccio di comunione.

Terminato quel rituale, l’uomo diede disposizioni affinché lo scrigno più interno – quello appunto di quarzite, contenente l’uno dentro l’altro i tre sarcofagi in cui era custodito il corpo del Re - venisse sigillato; poi si diresse verso l’anticamera.

Una statua di Anubis, posta all’ingresso, sembrava scrutarlo silenziosamente.

Muovendosi a stento tra gli innumerevoli oggetti già stipati nel locale, il sacerdote raggiunse quello che era sicuramente il più bello: un trono di legno ricoperto interamente d’oro e arricchito di intarsi in vetro e ceramica.

Se ogni parte di quell’oggetto era stata lavorata con cura, lo schienale in particolare rappresentava un ineguagliabile capolavoro di pittura ed oreficeria. Vi si vedeva raffigurata la Regina intenta a cospargere il corpo del Faraone, assiso di fronte a lei, di un qualche unguento o profumo. L’espressione dei loro volti era serena e felice, messa in risalto ancora una volta da un intenso blu lapislazzuli e dai benefici raggi di Ra che illuminavano la scena dall’alto.

L’uomo rimase qualche istante a contemplare quella meraviglia, quindi tracciò dei segni invisibili sulla seduta; successivamente, liberò dalla sottile copertura di lino, in cui erano avvolti, due oggetti che aveva portato appositamente con sé in quel luogo.

Due piccole trombe, una di bronzo e oro e l’altra d’argento, luccicarono alla debole luce della lampada, prima di venire deposte con cura proprio sopra lo splendido trono dorato: avrebbero guidato il giovane Faraone nel lungo e periglioso viaggio attraverso il Duat, dalle tenebre fino alla luce dell’aldilà e, quindi, al Giudizio del dio dei morti.

Ciò che bisognava fare, era stato fatto. Ciò che bisognava scrivere, era stato scritto.

Adesso sì, tutto era pronto e i musicisti potevano schierarsi per accompagnare con la Musica di Osiride le ultime operazioni di chiusura del sepolcro - il sacerdote sapeva che, da quel momento, non era più necessaria la sua presenza nella tomba.

Prima di abbandonare l’anticamera, tuttavia, l’uomo si diresse verso un giovane suonatore di sistro e gli consegnò tre piccole piramidi di legno ed una boccetta d’argento contenente un particolare unguento.

«Per chiudere la 'porta' che attira a sé l’energia del suono» - disse, gli occhi puntati con fierezza in quelli dell’altro, che già gli restituivano uno sguardo perfettamente complice.

Poi, senza aggiungere altro, socchiuse gli occhi e prese a salire lentamente i sedici gradini che lo avrebbero riportato all’aperto – sotto il cielo sacro d’Egitto, in una funesta alba di primavera…



- II -

Dalla parte dell’incertezza



«Il dubbio è uno dei nomi dell’intelligenza»

Jorge Luis Borges (1899-1986)


«Perché mai, o déi, due e due dovrebbe dar quattro?»

Alexander Pope (1688-1744)




Sosteneva, credo, Pierre Simon de Laplace (1749-1827), che Isaac Newton (1642-1727) era un uomo fortunato poiché in natura esiste una sola legge di Gravitazione Universale ed era stato proprio lui a scoprirla. Ed ancora, in apertura al suo famoso “Saggio filosofico sulle probabilità” (1812), che:

“un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se per di più fosse abbastanza profonda da sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti più grandi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi (…)”.

Stiamo parlando, ovviamente, di quella visione analitica ed estremamente razionale della Natura che viene ricordata ancor oggi col nome di “determinismo” laplaciano, e che rappresenta il leitmotiv che accomuna un po’ tutte le opere del grande studioso francese.

D’altra parte, quando all’inizio dell’Ottocento Napoleone chiedeva proprio a Laplace come mai, in un’opera monumentale qual era la sua “Meccanica celeste”, l’autore non avesse mai ipotizzato l’esistenza di Dio, Laplace rispondeva che per scriverla non gli era stato "necessario servirsi di quell’ipotesi…"


David Hilbert

Sosteneva - e qui sono sicuro - David Hilbert (1862-1943), sul finire dell’Ottocento, che la Matematica, ovvero tutto ciò che in essa si afferma potesse essere ricondotto semplicemente ad alcuni assiomi di partenza opportunamente scelti, sulla base dei quali poter dimostrare, appunto, ogni proposizione interna alla matematica stessa - anzi, direi che questo rimase il sogno più grande del padre del formalismo matematico.

Oggi sappiamo che tanto Laplace quanto Hilbert si sbagliavano. Tuttavia, anche se sono crollate sia le certezze del determinismo sia quelle del formalismo, direi che siamo immensamente più ricchi, essendosi aperti davanti a noi, d’un tratto, nuovi orizzonti di ricerca.

In Fisica c’è una differenza sottile, ma non banale, tra ciò che si definisce “Legge” e ciò che si definisce “Principio”.

Le leggi vengono provate in laboratorio e descrivono, in sintesi matematica, la natura di un fenomeno.

È una precisa “Legge”, ad esempio, quella che descrive il fenomeno per cui la Terra ruota intorno al Sole - la “Gravitazione Universale”, già ricordata più sopra - oppure quella che descrive in che modo due corpi puntiformi carichi si attraggono o si respingono – la “Legge di Coulomb”.

Un “Principio” è molto di più: è qualcosa che nessuno ha mai smentito e di conseguenza costituisce il fondamento di una determinata parte della Fisica.

Sono principi quello di “inerzia” oppure quello di “conservazione dell’energia meccanica” (sistemi conservativi); è un principio, ancora, quello secondo cui, se due corpi sono posti a contatto, il calore fluisce “spontaneamente” sempre dal corpo a temperatura maggiore a quello a temperatura minore, fino a che entrambi non si portano all’equilibrio termico (variante del “Secondo Principio della Termodinamica”).

Essi affermano proprietà così evidenti e sempre verificate - almeno nell’ambito della Meccanica classica - che sarebbe riduttivo definirli leggi.

Quasi sempre un principio definisce anche un limite imposto dalla natura.

Supponiamo di conoscere, ad un dato istante, la posizione esatta occupata da un elettrone che si stia muovendo in una regione dello spazio. In questo caso, l’esperienza prova che non potremo mai risalire, in alcun modo, alla velocità esatta della particella in quello stesso istante.

Viceversa, se conoscessimo in modo esatto la sua velocità, allora non riusciremmo mai ad ottenere alcuna informazione valida sulla sua posizione.

Tale limite, imposto dalla natura indipendentemente dall’abilità di chi conduce le misure, prende il nome di “Principio di indeterminazione” di Heisenberg (1927) e può essere considerato il punto di partenza della cosiddetta “Meccanica Quantistica”, ovvero quella parte della Fisica moderna che fonda su leggi probabilistiche e secondo cui, il semplice atto di “osservare” un certo fenomeno fisico produce effetti sul sistema osservato ed interagisce con esso.

Com’è facile intuire, si tratta di un principio assolutamente incompatibile col determinismo laplaciano e le cui conseguenze aprono scenari del tutto inimmaginabili in passato.


Se in ambito fisico lo spettro dell’incertezza si chiama “indeterminazione”, e fa capo al già citato principio di Heisenberg, in matematica prende il nome di “indecidibilità”, e fonda su uno dei più importanti teoremi che siano mai stati dimostrati.

Werner Heisenberg


In matematica, un “assioma” è un’affermazione che viene assunta vera senza che la si dimostri. Un teorema invece è un’affermazione a cui si giunge, per dimostrazione, partendo da alcuni presupposti iniziali considerati “veri” e a cui si dà il nome di “ipotesi” - si pensi ad esempio al celebre “Teorema di Pitagora”, che esprime una precisa proprietà relativa ai lati di ogni triangolo rettangolo…

Uno degli assiomi più noti è probabilmente quello delle parallele introdotto da Euclide nel III secolo a.c., sulla base del quale, in sostanza, due rette parallele non hanno punti in comune.

Questa affermazione non si dimostra e partendo dal suo contenuto si riesce a costruire quella che chiamiamo “Geometria euclidea”, spesso utile per una descrizione razionale del mondo visibile.

Se, però, si assume per assioma che due rette parallele abbiano un punto in comune, allora è possibile costruire una nuova geometria, non euclidea, altrettanto coerente e che trova notevoli applicazioni in diversi campi della scienza.

Quali che siano gli assiomi scelti su cui fondare una teoria matematica formale, è ragionevole pensare che essi debbano costituire sempre ciò che viene detto un “sistema coerente e completo”.

Affinché un sistema di assiomi sia coerente (non contraddittorio), deve accadere che, partendo dagli assiomi, non si giunga a dimostrare che una certa affermazione risulti contemporaneamente vera e falsa.

Affinché il sistema risulti, invece, completo, è necessario che ogni affermazione (o la sua contraria) all’interno della teoria costituisca un “teorema”, cioè un asserto “dimostrabile”.

Come già accennato, su tale presupposto di coerenza e completezza fondava appunto il più grande sogno di Hilbert: riuscire a trovare il migliore dei sistemi assiomatici possibili, cioè quel sistema di assiomi, coerente e completo, a cui ricondurre non una precisa teoria matematica, ma addirittura “tutta” la Matematica.

Prima di proseguire, prendiamo in considerazione la seguente affermazione, nota anche come paradosso di Epimenide, noto filosofo dell’antichità.

http://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso_del_mentitore

Epimenide afferma:

«Io sono un mentitore»

Se volessimo stabilire se tale proposizione è dimostrabile, sorgono problemi.

Ammesso che sia “vera”, infatti, avremmo che Epimenide starebbe affermando una cosa vera dichiarando, però, di essere uno che mente, e dunque ci sarebbe un’evidente contraddizione.

D’altra parte, l’affermazione non può essere neppure “falsa” (il che equivarrebbe ad ammettere che è vera la sua contraria), poiché, in questo caso, avremmo che Epimenide sarebbe uno che dice il vero, ma il suo affermare di essere un mentitore porgerebbe ancora una volta una contraddizione.

Quella appena considerata è un esempio di proposizione “indecidibile”, cioè una proposizione della quale, se riuscissimo a dimostrare che è vera o che tale è la sua contraria, avremmo in ogni caso una contraddizione, con conseguente perdita di coerenza del sistema in cui sia stata definita.



Kurt Godel e Albert Einstein

L’esistenza di tali proposizioni costituì motivo di grande imbarazzo per i matematici di fine Ottocento, ma all’inizio del nuovo secolo fu anche il punto di partenza degli studi di Kurt Gödel (1906-1978), un giovane matematico austriaco autore di un teorema – in realtà due teoremi, il secondo ancora più destabilizzante del primo - tra i più straordinari della letteratura scientifica di ogni tempo.

Cerchiamo di capire il perché.

Supponiamo, per un attimo, di essere riusciti a costruire un sistema formale di assiomi matematici che fondi sulla coerenza, cioè un sistema che, se si utilizzano le regole della logica, non consenta di provare che una qualche affermazione interna al sistema è contemporaneamente vera e falsa.


Ebbene, il “Teorema di incompletezza” di Gödel (1931) stabilisce che un tale sistema non potrà mai essere “completo”, il che equivale a dire che esisterà sempre, all’interno del sistema stesso, almeno un’affermazione “indecidibile”, cioè un’affermazione “vera” e pur tuttavia non dimostrabile!

Ma la questione è ancor più sottile.

Se volessimo aggirare l’ostacolo decidendo di elevare ad assioma tale affermazione (assumendo vera, indifferentemente, essa o la sua contraria), in modo da non doverla più dimostrare (si ricordi che un assioma è, per definizione, un’affermazione vera che non si dimostra), il nuovo e più ampio sistema che verremmo così a costruire porterebbe nuovamente, al suo interno, almeno una proposizione indecidibile.

Si tratta di un risultato eccezionale, la cui importanza non poteva essere colta e accettata rapidamente dalla comunità scientifica del tempo. Occorreva un sacrificio: bisognava voltar pagina e diventare improvvisamente adulti, abbandonando per sempre un sogno – quello di Hilbert – assolutamente irrealizzabile.

Malgrado gli ostracismi iniziali, alla fine anche i più conservatori dovettero arrendersi all’evidenza dei fatti e riconoscere il genio di Gödel. Quest’ultimo, nel 1978, ormai malato di mente, si sarebbe lasciato morire di denutrizione in quanto convinto che qualcuno avesse intenzione di avvelenarlo.

La grandezza del suo teorema, naturalmente, è sopravvissuta. E per l’enorme contributo che il suo autore ha dato alla Matematica, all’inizio del nuovo millennio, non a caso, Time ha indicato proprio in Kurt Gödel “il matematico più rappresentativo del ventesimo secolo”.

Il “Principio di indeterminazione” di Heisenberg ed il “Teorema di incompletezza” di Gödel rappresentano due dei più importanti risultati della conoscenza umana. Il primo è appannaggio della Fisica, l’altro della Matematica.

Entrambi, se da una parte hanno aperto una voragine in ambito scientifico mostrando l’impossibilità di risolvere in positivo la cosiddetta “Crisi dei Fondamenti”, dall’altro hanno creato nuovi campi di indagine e dato vita, soprattutto, ad un nuovo modo di pensare.

Faremo bene a ricordarcene tra un attimo, quando prenderemo in considerazione i fenomeni connessi col suono e la sua percezione…




- III -

“Provando e riprovando”




«Ogni grande progresso scientifico è scaturito da un nuovo atto d'audacia dell'immaginazione»

John Dewey (1859-1952)



«La mente che si apre ad una nuova idea non torna mai alla dimensione precedente»

Albert Einstein (1879-1955)