domenica 16 agosto 2009

Realtà percepita e realtà esterna alla nostra mente



Tutti ammetteranno che né i nostri pensieri né le nostre passioni né le idee formate dalla nostra immaginazione esistono senza la mente. Non meno chiaro è per me che le diverse sensazioni, o idee impresse nei sensi, in qualunque modo si combinino (cioè, qualunque sia l’oggetto che formano), non possono esistere se non in una mente che le percepisca… Affermo che questo tavolo esiste; vale a dire, lo vedo e lo tocco. Se, stando fuori del mio studio, affermo la stessa cosa, voglio dire soltanto che se stessi qui lo percepirei, o che lo percepisce qualche altro spirito… Parlare dell’esistenza assoluta di cose inanimate, senza relazione col fatto che esse siano o no percepite, è per me insensato. Il loro esse è percipi; non è possibile che esistano fuori delle menti che le percepiscono […]
Ma, si dirà, niente è più facile che immaginare alberi in un prato o libri in una biblioteca, e nessuno presso di essi che li percepisca. In effetti niente è più facile. Ma, vi domando, che cosa avete fatto se non formare nella mente alcune idee che chiamate libri o alberi ed omettere al tempo stesso l’idea di qualcuno che li percepisce? Voi, intanto, non li pensavate? Non nego che la mente sia capace d’immaginare idee; nego che gli oggetti possano esistere fuori dalla mente.
(Berkeley, Principles on Human Knowledge)


George Berkeley


REALTA' PERCEPITA E REALTA' ESTERNA ALLA NOSTRA MENTE

L’idealismo, ma non solo quello dei secoli recenti, anche dei platonici o di Parmenide, è dell’idea che la percezione sensitiva sia l’unico fondamento della nostra conoscenza, che non abbiamo modo di distinguere la realtà dall’insieme degli stimoli che da essa pervengono, e, secondo me, questa tesi è inconfutabile. Perché non possiamo emanciparci dai sensi, non possiamo figurarci un’esperienza dell’universo esterno non mediata da dei conduttori di segnali, e anche se potessimo far uso di sensi nuovi e differenti da quelli che possediamo, il problema non si risolverebbe ma verrebbe solo traslato.

Ci sono però delle componenti della realtà che devono indurci a non chiudere il discorso con quanto diceva Berkeley nella citazione sopra, e che indirizzano ad una analisi adeguata – cosa che esula dal mio tentativo di spunto.

In primo luogo l’idealismo berkeleyano non nega la realtà esterna, casomai nega la possibilità di discernere una possibile materia esterna da noi stessi da qualcosa che ha luogo nella mente; è una prova della nostra mancanza di verifica della veridicità dell’universo esterno, di una sua oggettività universale, ma non che questo debba essere necessariamente solo metafisico e mentale, e non solo oggettivo e indipendente al senziente. Definisce dei limiti alla nostra possibilità di percezione della realtà ma non dei limiti della realtà stessa.
Di più, la nostra mente non è esente da simili perplessità sull’esterno: il processo di “sfiducia” negli strumenti assegnateci dalla corporalità, i cinque sensi, può essere esteso in una regressione fino alla nostra mente ed alla nostra consapevolezza ed essenza pensante; mi spiego: io percepisco tramite la vista, la presenza di un tavolo, e lo tocco e ne posso sentire la solidità.
Questo è comunque, prima di ogni altra cosa, flussi elettrici tra il sistema nervoso e le parti del cervello preposte all’elaborazione – che si formano dai polpastrelli e seguendo le linee di confluenza nervosa trasmettono dei dati alla mente -, io non so se il tavolo esiste.

Berkeley non ammette un mondo esterno ma crede nella realtà dello spirito.

Non sono tanto convinto di questo, perché anche solo il pensiero che io sto articolando in questa pagina è frutto di consapevolezza di un prima e un dopo del ragionamento, ma questa consapevolezza potrebbe essere solo illusoria, così come l’affidabilità dei polpastrelli o della retina. Io credo di esistere e di avere un passato, ma ciò è arbitrario potere del mio cervello – o se preferite, più correttamente, della mia mente.
Posso essere convinto di avere un passato alle spalle di consapevolezze (memoria), ma queste potrebbero del tutto essere frutto di quest’istante nel quale ne percepisco il ricordo.
In breve il passato, il mio passato che mi rende identità definita e peculiare, potrebbe non esistere, potrebbe essere un’invenzione, contemporanea a questa battitura di testo, della mia mente che però mi convince, perché non posso esistere al di là di essa, che io sono questo e voi siete qualcos’altro.

Sto parlando di considerazioni fortemente anti-intuitive e palesemente assurde, ma non smentibili argomentativamente con tanta facilità, bensì rese trascurabili dal blando “buon senso”; ma ci possiamo fidare del buon senso?
Quali sono le sue basi logiche, a parte la consuetudine?

La sfiducia nei sensi può essere inclusa nel comprendere anche una diffidenza tra la mia mente ed il mio spirito, e niente può essere considerato effettivo.
Il ricordo potrebbe essere uno strumento di apparato di potere della nostra mente, quindi io potrei non esistere che da adesso, e solo in queste frazioni di secondo che bastano allo specious present degli psicologi, il presente stretto che mi da la consapevolezza d’essere vivo.
Il regresso della sfiducia è applicabile ai sensi così come a ciò ch’è considerato indipendente, in una certa misura, dal mondo esterno.
La logica ed il raziocinio noi li consideriamo come un fatto assodato e probatorio, così come utile e sottoponibile a riscontri e dialettica. Ma la logica segue degl’assiomi di base nella quale, dati per scontati dualità come vero-falso, credibile-poco credibile, giusto-non giusto, noi creiamo delle teorie che persuadono o vengono considerate erronee.

Il problema è che la logica si basa, prima di ogni altra cosa, sulla sensazione di giusto e sbagliato, sulla sensazione di vero e falso.

Se qualcuno mi dice: tu sei un cavallo, io so che questa affermazione non è esatta. Ma quello che accade, in realtà, è che io sento la sensazione che tale assunto sia falso, questa sensazione è derivata da un sentore conscio ed inconscio, dai ricordi della mia esperienza del mondo, dal mio modo di giudicare le asserzioni. Ma questo è frutto della mente e della sua arbitrarietà rispetto a qualsiasi impressione che io possa avere di essa che sia in ogni caso onesta con se stessa – me stesso.

Come so che la mente mi dice sempre il vero? Su che basi mi posso fidare di componenti della mia mente quali memoria, giudizio, cognizione?
I ricordi, e perciò l’esperienza del mondo, potrebbero essere fittizia ricostruzione e sensazione che io percepisco in questo singolo istante, e improntata dalla mente per costruire l’assodato che concepisco. Ma non abbiamo la certezza della sincerità della mente, dell’affidabilità della mente, così come non ce l’abbiamo dei cinque sensi. La logica è un prodotto che la vita ci ha insegnato essere affidabile per trarre delle conclusioni e dei dati di fatto, ma potrebbe essere illusorio – e ingannevole - come tutto il resto.


Un’ultima cosa.
Anche tenendo conto di tutte queste sfiduce possibili, ci sono dei piccoli (?) segnali che ci inducono a pensare che la realtà possa essere esistente al di là del nostro pensiero e percezione.
Abbiamo già detto che l’idealismo non confuta la veridicità dell’universo esterno, ma soltanto l’opportunità per noi di darne una prova esatta e indiscussa.
Quindi è possibile crederci come non farlo, e non abbiamo molti elementi per orientarci con competenza decisiva.

Uno scienziato che si occupa ogni giorno, sia nel pensiero che nelle azioni (che magari sono la stessa cosa) di fatti empirici e materici, intuitivamente, è preso dal ritenere che la realtà esterna sia un dato inconfutabile: una pietra esiste non perché la percepiamo, ma perché è atomica e stabile e continuativamente osservabile, con coerenza nel tempo.
In altri termini, pur se tutto quello che sappiamo dell’esterno sono il risultato di elaborazione di elettroni che ci arrivano dai sensi, queste elaborazioni sono analoghe e congruenti nel tempo.

Alla soluzione elaborativa dell’insieme di dati elettronici che equivalgono a “matita”, questi si ripetono e non sono casuali nelle successioni dei riscontri: indi c’è coerenza, continuità e disposizione a una realtà che, non essendo disordinata e caotica nei dati pervenutici, lascia credere che anch’essa sia coerente e credibile (sempre se i ricordi sono qualcosa di realmente riconducibile ad eventi passati e non inganni estemporanei del presente sulla mente).
Lo scienziato è più suscettibile all’osservazione che la uniformità dei segnali provenienti dai sensi, “nell’insieme continuo di percezioni che formano la mente” (diceva Hume), è un dato tanto comune quanto lampante.

Esiste quindi una coerenza delle percezioni, la stessa coerenza che ci permette di associare a stimoli analoghi sempre la presenza di un tavolo come di una sedia o dell’acqua. Prove definitive non ce ne possono essere.
Rimane il dubbio che anche se un Dio esistesse dovrebbe avere la certezza della propria onniscienza e onnipotenza a partire da qualche ente estraneo alla propria consapevolezza di esserlo: altrimenti anche lui non sarebbe altro che la inquietante illusione della consapevolezza di se stessi.

Il pensiero, nessuno lo prende molto sul serio, tranne quelli che si considerano pensatori o filosofi di professione. Ma questo non impedisce affatto che esso abbia i suoi apparati di potere - e che sia un effetto del suo apparato di potere il fatto che possa dire alla gente: non prendetemi sul serio perché io penso per voi, perché vi do una conformità, delle norme e delle regole, un’immagine, alle quali voi potrete tanto più sottomettervi quanto più direte.

Gilles Deleuze

Nessun commento: