domenica 16 agosto 2009

Realtà percepita e realtà esterna alla nostra mente



Tutti ammetteranno che né i nostri pensieri né le nostre passioni né le idee formate dalla nostra immaginazione esistono senza la mente. Non meno chiaro è per me che le diverse sensazioni, o idee impresse nei sensi, in qualunque modo si combinino (cioè, qualunque sia l’oggetto che formano), non possono esistere se non in una mente che le percepisca… Affermo che questo tavolo esiste; vale a dire, lo vedo e lo tocco. Se, stando fuori del mio studio, affermo la stessa cosa, voglio dire soltanto che se stessi qui lo percepirei, o che lo percepisce qualche altro spirito… Parlare dell’esistenza assoluta di cose inanimate, senza relazione col fatto che esse siano o no percepite, è per me insensato. Il loro esse è percipi; non è possibile che esistano fuori delle menti che le percepiscono […]
Ma, si dirà, niente è più facile che immaginare alberi in un prato o libri in una biblioteca, e nessuno presso di essi che li percepisca. In effetti niente è più facile. Ma, vi domando, che cosa avete fatto se non formare nella mente alcune idee che chiamate libri o alberi ed omettere al tempo stesso l’idea di qualcuno che li percepisce? Voi, intanto, non li pensavate? Non nego che la mente sia capace d’immaginare idee; nego che gli oggetti possano esistere fuori dalla mente.
(Berkeley, Principles on Human Knowledge)


George Berkeley


REALTA' PERCEPITA E REALTA' ESTERNA ALLA NOSTRA MENTE

L’idealismo, ma non solo quello dei secoli recenti, anche dei platonici o di Parmenide, è dell’idea che la percezione sensitiva sia l’unico fondamento della nostra conoscenza, che non abbiamo modo di distinguere la realtà dall’insieme degli stimoli che da essa pervengono, e, secondo me, questa tesi è inconfutabile. Perché non possiamo emanciparci dai sensi, non possiamo figurarci un’esperienza dell’universo esterno non mediata da dei conduttori di segnali, e anche se potessimo far uso di sensi nuovi e differenti da quelli che possediamo, il problema non si risolverebbe ma verrebbe solo traslato.

Ci sono però delle componenti della realtà che devono indurci a non chiudere il discorso con quanto diceva Berkeley nella citazione sopra, e che indirizzano ad una analisi adeguata – cosa che esula dal mio tentativo di spunto.

In primo luogo l’idealismo berkeleyano non nega la realtà esterna, casomai nega la possibilità di discernere una possibile materia esterna da noi stessi da qualcosa che ha luogo nella mente; è una prova della nostra mancanza di verifica della veridicità dell’universo esterno, di una sua oggettività universale, ma non che questo debba essere necessariamente solo metafisico e mentale, e non solo oggettivo e indipendente al senziente. Definisce dei limiti alla nostra possibilità di percezione della realtà ma non dei limiti della realtà stessa.
Di più, la nostra mente non è esente da simili perplessità sull’esterno: il processo di “sfiducia” negli strumenti assegnateci dalla corporalità, i cinque sensi, può essere esteso in una regressione fino alla nostra mente ed alla nostra consapevolezza ed essenza pensante; mi spiego: io percepisco tramite la vista, la presenza di un tavolo, e lo tocco e ne posso sentire la solidità.
Questo è comunque, prima di ogni altra cosa, flussi elettrici tra il sistema nervoso e le parti del cervello preposte all’elaborazione – che si formano dai polpastrelli e seguendo le linee di confluenza nervosa trasmettono dei dati alla mente -, io non so se il tavolo esiste.

Berkeley non ammette un mondo esterno ma crede nella realtà dello spirito.

Non sono tanto convinto di questo, perché anche solo il pensiero che io sto articolando in questa pagina è frutto di consapevolezza di un prima e un dopo del ragionamento, ma questa consapevolezza potrebbe essere solo illusoria, così come l’affidabilità dei polpastrelli o della retina. Io credo di esistere e di avere un passato, ma ciò è arbitrario potere del mio cervello – o se preferite, più correttamente, della mia mente.
Posso essere convinto di avere un passato alle spalle di consapevolezze (memoria), ma queste potrebbero del tutto essere frutto di quest’istante nel quale ne percepisco il ricordo.
In breve il passato, il mio passato che mi rende identità definita e peculiare, potrebbe non esistere, potrebbe essere un’invenzione, contemporanea a questa battitura di testo, della mia mente che però mi convince, perché non posso esistere al di là di essa, che io sono questo e voi siete qualcos’altro.

Sto parlando di considerazioni fortemente anti-intuitive e palesemente assurde, ma non smentibili argomentativamente con tanta facilità, bensì rese trascurabili dal blando “buon senso”; ma ci possiamo fidare del buon senso?
Quali sono le sue basi logiche, a parte la consuetudine?

La sfiducia nei sensi può essere inclusa nel comprendere anche una diffidenza tra la mia mente ed il mio spirito, e niente può essere considerato effettivo.
Il ricordo potrebbe essere uno strumento di apparato di potere della nostra mente, quindi io potrei non esistere che da adesso, e solo in queste frazioni di secondo che bastano allo specious present degli psicologi, il presente stretto che mi da la consapevolezza d’essere vivo.
Il regresso della sfiducia è applicabile ai sensi così come a ciò ch’è considerato indipendente, in una certa misura, dal mondo esterno.
La logica ed il raziocinio noi li consideriamo come un fatto assodato e probatorio, così come utile e sottoponibile a riscontri e dialettica. Ma la logica segue degl’assiomi di base nella quale, dati per scontati dualità come vero-falso, credibile-poco credibile, giusto-non giusto, noi creiamo delle teorie che persuadono o vengono considerate erronee.

Il problema è che la logica si basa, prima di ogni altra cosa, sulla sensazione di giusto e sbagliato, sulla sensazione di vero e falso.

Se qualcuno mi dice: tu sei un cavallo, io so che questa affermazione non è esatta. Ma quello che accade, in realtà, è che io sento la sensazione che tale assunto sia falso, questa sensazione è derivata da un sentore conscio ed inconscio, dai ricordi della mia esperienza del mondo, dal mio modo di giudicare le asserzioni. Ma questo è frutto della mente e della sua arbitrarietà rispetto a qualsiasi impressione che io possa avere di essa che sia in ogni caso onesta con se stessa – me stesso.

Come so che la mente mi dice sempre il vero? Su che basi mi posso fidare di componenti della mia mente quali memoria, giudizio, cognizione?
I ricordi, e perciò l’esperienza del mondo, potrebbero essere fittizia ricostruzione e sensazione che io percepisco in questo singolo istante, e improntata dalla mente per costruire l’assodato che concepisco. Ma non abbiamo la certezza della sincerità della mente, dell’affidabilità della mente, così come non ce l’abbiamo dei cinque sensi. La logica è un prodotto che la vita ci ha insegnato essere affidabile per trarre delle conclusioni e dei dati di fatto, ma potrebbe essere illusorio – e ingannevole - come tutto il resto.


Un’ultima cosa.
Anche tenendo conto di tutte queste sfiduce possibili, ci sono dei piccoli (?) segnali che ci inducono a pensare che la realtà possa essere esistente al di là del nostro pensiero e percezione.
Abbiamo già detto che l’idealismo non confuta la veridicità dell’universo esterno, ma soltanto l’opportunità per noi di darne una prova esatta e indiscussa.
Quindi è possibile crederci come non farlo, e non abbiamo molti elementi per orientarci con competenza decisiva.

Uno scienziato che si occupa ogni giorno, sia nel pensiero che nelle azioni (che magari sono la stessa cosa) di fatti empirici e materici, intuitivamente, è preso dal ritenere che la realtà esterna sia un dato inconfutabile: una pietra esiste non perché la percepiamo, ma perché è atomica e stabile e continuativamente osservabile, con coerenza nel tempo.
In altri termini, pur se tutto quello che sappiamo dell’esterno sono il risultato di elaborazione di elettroni che ci arrivano dai sensi, queste elaborazioni sono analoghe e congruenti nel tempo.

Alla soluzione elaborativa dell’insieme di dati elettronici che equivalgono a “matita”, questi si ripetono e non sono casuali nelle successioni dei riscontri: indi c’è coerenza, continuità e disposizione a una realtà che, non essendo disordinata e caotica nei dati pervenutici, lascia credere che anch’essa sia coerente e credibile (sempre se i ricordi sono qualcosa di realmente riconducibile ad eventi passati e non inganni estemporanei del presente sulla mente).
Lo scienziato è più suscettibile all’osservazione che la uniformità dei segnali provenienti dai sensi, “nell’insieme continuo di percezioni che formano la mente” (diceva Hume), è un dato tanto comune quanto lampante.

Esiste quindi una coerenza delle percezioni, la stessa coerenza che ci permette di associare a stimoli analoghi sempre la presenza di un tavolo come di una sedia o dell’acqua. Prove definitive non ce ne possono essere.
Rimane il dubbio che anche se un Dio esistesse dovrebbe avere la certezza della propria onniscienza e onnipotenza a partire da qualche ente estraneo alla propria consapevolezza di esserlo: altrimenti anche lui non sarebbe altro che la inquietante illusione della consapevolezza di se stessi.

Il pensiero, nessuno lo prende molto sul serio, tranne quelli che si considerano pensatori o filosofi di professione. Ma questo non impedisce affatto che esso abbia i suoi apparati di potere - e che sia un effetto del suo apparato di potere il fatto che possa dire alla gente: non prendetemi sul serio perché io penso per voi, perché vi do una conformità, delle norme e delle regole, un’immagine, alle quali voi potrete tanto più sottomettervi quanto più direte.

Gilles Deleuze

martedì 7 luglio 2009

Nunc (non) est bibendum



L'alcool diminuisce la capacità uditiva.

Ricercatori inglesi dell'University College of London Hospitals hanno sottoposto a test un gruppo di adulti in ottima salute fra i venti e i quarant'anni di età e misurato la capacità uditiva da sobri e dopo aver consumato alcool.
Il risultato è che l'assunzione di bevande alcoliche rende l'udito meno acuto.
Il test è stato effettuato in laboratorio seguendo una metodologia scientifica, ed il test audiometrico ha rivelato una corrispondenza tra assunzione di alcool e riduzione della sensibilità uditiva.
Un ulteriore risultato del test ha mostrato una maggiore sensibilità al problema da parte dei soggetti più anziani rispetto ai più giovani.
Ma il risultato più interessante, almeno per la materia che ci riguarda, è che la perdita di sensibilità è maggiore alle basse frequenze, il che porterebbe ad una spiegazione dell'elevato livello di pressione della gamma bassa utilizzato nelle discoteche che avrebbe lo scopo di compensare l'attenuazione fisiologica in un ambiente dove l'uso di alcolici è abitualmente superiore alla media.
Fortunatamente la perdita di sensibilità risulta temporanea e dopo poche ore tutto ritorna alla normalità.
Rimane la questione: perchè l'alcool influenza e riduce la capacità uditiva?
Due le scuole di pensiero:
La prima ipotizza che l'alcool sia in grado di determinare un malfunzionamento del complesso sistema dell'orecchio interno, coclea ed organi ciliari che stimolano il nervo uditivo.
La seconda asserisce che l'alcool sia in grado di influenzare e ridurre la capacità del cervello di decifrare le informazioni regolarmente trasferite dal nervo acustico.
In ogni caso è evidente l'attinenza con la "Cocktail deafness" cioè il progressivo innalzamento del volume sonoro nei locali dove si utilizza musica col passare del tempo evidentemente legato all' incremento dell'assunzione alcoolica.

Alcune personali esperienze condotte nell'ottica di una valutazione dell'influenza ambientale sulla percezione uditiva hanno dimostrato una sensibilità dell'ascoltatore di musica riprodotta alla semplice presenza di alcool posto a distanza ravvicinata con un effetto simile a quello evidenziato dai ricercatori inglesi ovvero la sensazione di un incremento delle medie frequenze legato anche ad una diminuita percezione delle basse.
Il progressivo allontanamento fisico degli alcolici dall'ascoltatore diminuiva drasticamente la loro influenza sulla capacità di decifrare le informazioni musicali da cui il conseguente ritorno alla sensazione della qualità d'ascolto originaria.

venerdì 3 luglio 2009

Batbrain


Ludwig Van Beethoven
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L'orecchio umano è perfettamente sintonizzato per distinguere differenti frequenze sonore di varia altezza ed intensità al fine di discernere i suoni ed i rumori che ci circondano.
Altri mammiferi rispetto all'uomo, esibiscono diverse ed anche ben più efficaci prestazioni del sistema auditivo, ma una recente scoperta attribuisce agli umani la presenza di un singolo neurone nel cervello capace di discernere le più sottili informazioni sonore.

Il dottor Itzhak Fried, professore di neurologia e direttore dell'UCLA, centro di ricerca per l'epilessia, e colleghi della Hebrew University e del Weizman Institute of Science riportano nel numero di gennaio della rivista "Nature", la scoperta negli umani, di un singolo neurone capace di una spettacolare selettività ed in grado di decifrare differenze fino ad un decimo di ottava nella gamma delle frequenze audio udibili.
Di fatto la capacità di questo neurone di decifrare le più sottili differenze in termini di frequenze udibili sorpassa di molto, circa trenta volte di più, la capacità del nervo acustico di trasferire informazioni al cervello.
Si tratta di una capacità ben superiore a quella di altri mammiferi pur dotati di maggiore capacità uditiva riguardo l'estensione in frequenza, ad eccezione dei pipistrelli.

E' un paradosso, notano i ricercatori, che i neuroni acustici di un orecchio musicalmente non allenato possano decifrare piccole differenze in frequenza molto meglio del nervo acustico periferico.
Con altri nervi periferici, es. quelli della pelle, la capacità di distinguere differenze tattili è limitata dai recettori nella pelle ed i neuroni associati non rivelano una maggiore sensibilità, in contrasto con l'udito dove la sensibilità del neurone eccede quella del nervo periferico.

I ricercatori israeliani, Israel Nelken e Yael Bitterman, della Hebrew University, hanno rilevato in che modo i neuroni rispondono ai vari suoni, registrando l'attività cerebrale di quattro pazienti consezienti afflitti da epilessia inguaribile tramite l'uso di elettrodi intracraniali allo scopo di individuare il punto focale della loro anomalia.

La registrazione dell'attività cerebrale è stata effetttuata modulando utilizzando la colonna sonora del film di Sergio Leone "Il buono, il brutto ed il cattivo".

Il risultato ha sorpreso i ricercatori: un singolo neurone è stato capace di distinguere sottili differenze di frequenza, fino a un decimo d'ottava.
Come termine di riferimento, un gatto ed un topo sono capaci di distinguere rispettivamente variazioni di un'ottava il gatto e di un terzo d'ottava il topo.
Un ottava è l'intervallo fra una x frequenza ed il doppio di essa, es. 1000 hertz e 2000 hz, un terzo d'ottava 1000 hz e 1333 hz, un decimo d'ottava 1000 e 1100 hz.

E' un mistero il come l'evoluzione abbia mantenuto una capacità probabilmente inutilizzata.
Come si è sviluppata?
Questa selettività non è necessaria per la comprensione del linguaggio ma potrebbe aver avuto un ruolo per la comprensione musicale.
Anche ascoltatori non allenati sono quindi in grado di decifrare differenze di così lieve entità.
E' evidente che questa capacità è correlata con il sistema cognitivo, con il principio della memoria di lavoro e con la capacità di apprendimento, ma solo ulteriori ricerche saranno in grado di chiarire il puzzle.

E' però interessante notare che:

Si tratta di acuità di sensori umani nella corteccia uditiva del cervello e non di capacità di discernere informazioni attraverso il nervo acustico, il che potrebbe spiegare la riconosciuta sensibilità umana a determinati fenomeni psicoacustici.
Soggetti non allenati dotati di normali capacità auditive, in grado di discernere differenze che il nervo acustico non è in grado di trasportare, possono spiegare l'esistenza di fenomeni di percezione acustica non razionalmente dimostrabili.

Il documento della ricerca puntualizza la non necessità di una tale capacità di differenziazione uditiva, ma da un'altra angolazione si fa osservare che il discernimento del linguaggio non è legato soltanto alla decifrazione delle parole, e che il parlato contiene invece una grandissima varietà di informazioni al di la della semplice emissione sonora del messaggio.
Sottilissime variazioni tonali della voce possono essere fortemente indicative dello stato emozionale della persona.

Il fatto che un singolo neurone possa avere tali capacità di discernimento mette in discussione l'analisi del cervello predefinita in grandi blocchi, relazionata alle sue dimensioni fisiche ed il rapporto tra sensibilità all'ascolto e variazioni strutturali della corteccia uditiva.

domenica 7 giugno 2009

Eccellenza


Da un'intervista a Bernd Pletschen, Capo vibroacustica di Mercedes-Benz

Il suo udito deve percepire anche i toni intermedi più deboli e deve essere in grado di descrivere i suoni con la massima precisione. Con il suo team di 170 collaboratori, Bernd Pletschen assicura l’armonia di ogni suono di una Mercedes. Come ci si aspetta da un’auto di classe.

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Che cos'è l'eccellenza, Bernd Pletschen?"

"L'eccellenza è la capacità di soddifare i desideri espressi dai clienti e di intuire i desideri non espressi."


Signor Pletschen, come deve essere il suono della chiusura di una porta di una vettura di classe?

Deve essere un suono pieno, ossia un suono di chiusura solido a bassa frequenza, che ricordi vagamente la chiusura di una cassaforte. I suoni a bassa frequenza vengono percepiti in modo gradevole, mentre i rumori ad alta frequenza sono disarmonici e a volte un po’ stridenti, anche quando sono molto tenui.


È possibile formarsi in esperto in acustica di vetture?

Non esiste una formazione specifica diretta. I nostri ingegneri e fisici sono da un lato meccanici strutturali di motori o vetture e, dall’altro, tecnici acustici, discipline per le quali esistono delle formazioni. Essi si specializzano in seguito sulle automobili durante anni di pratica. Tra l’altro molti dei miei acustici suonano in gruppi oppure in orchestre ed hanno pertanto uno spiccato orecchio musicale.


Questa professione presuppone un udito perfetto?

Occorre soprattutto un orecchio sensibile, in grado di percepire gli innumerevoli mezzitoni di una vettura, nonché la capacità di descrivere suoni e rumori.


Come viene ripartito questo compito tra computer e udito umano?

Evidentemente l’elettronica assume un ruolo importante, ad esempio nel calcolo delle peculiarità acustiche e meccanico-strutturali del motore, della carrozzeria e dell’intera vettura. I programmi informatici consentono inoltre di filtrare singoli eventi sonori. Anche l’intera tecnica di controllo, che rileva dati fisici oggettivi, è affidata all’informatica. La valutazione soggettiva di rumori e pressioni acustiche nonché parzialmente delle relative oscillazioni e delle vibrazioni strutturali sollecitano la sensibilità dell’orecchio umano nonché le capacità percettive tattili.


Qual è l’importanza delle sue competenze in fisica e matematica per il suo lavoro?

Lavoriamo su complessi fenomeni fisici che presuppongono nel modo più assoluto una formazione scientifica in fisica e in ingegneria. Nel settore della tecnica delle oscillazioni uno spiccato senso della matematica è assolutamente imprescindibile: i nostri esperti ed analisti devono avere una formazione specifica in matematica. Ma vi è un altro aspetto importante, la psicoacustica.


Non tutte le persone percepiscono gli stessi suoni allo stesso modo. Com'è possibile individuare un suono che piaccia a un target ampio?

Da un lato le persone dei diversi settori di sviluppo delle serie di auto, con le quali definiamo i suoni che vogliamo ottenere, conoscono perfettamente vetture e clientela. Quando lanciamo una novità assoluta, nei test preliminari coinvolgiamo i clienti a cui chiediamo di prestare particolare attenzione ai suoni e ai rumori. Cerchiamo di capire quali suoni e quali rumori vengono percepiti in modo più armonioso e gradevole nelle più diverse situazioni.


Qual è il ruolo di un esperto in acustica di automobili? Se la costruzione di un’auto in sé è perfetta, il suono non è automaticamente perfetto?

Occorre sempre finalizzare i processi ed effettuare regolazioni raffinate. Riprendo l’esempio della sala da concerto e di un’orchestra: l’effetto di un suono è evidentemente diverso se generato da una tromba o da un violino. Nelle fasi finali della costruzione di un’auto è importante creare l’armonia giusta. La somma di molti elementi eccellenti non sfocia automaticamente in un’auto eccellente. Il nostro compito è appunto quello di fare in modo che molti elementi perfettamente calibrati sfocino in un insieme acusticamente armonioso.


Che cosa associa alla parola «passione»?

La passione si riflette nell’entusiasmo con cui si fa una determinata cosa. Ed è una delle premesse del relativo successo


In che modo ambisce all’eccellenza?

L’eccellenza è l’ambizione di soddisfare i desideri espressi dai clienti e la capacità di intuire possibili desideri non espressi. Nel mio ambito specifico, l’eccellenza è fare in modo che tutte le esigenze di comfort dei clienti vengano perfettamente soddisfatte quando si trovano in una Mercedes-Benz.

lunedì 20 aprile 2009

La prima del Don Giovanni di Mozart e le Trombe del Giudizio




La Prima del Don Giovanni di Mozart e le Trombe del Giudizio.


di Francesco Quartana



Quando nel finale del Don Giovanni - il Don Giovanni di Mozart e da Ponte - Donna Elvira, Donna Anna e Don Ottavio, Zerlina e Masetto si precipitano sulla scena per dare finalmente al protagonista la punizione che merita, questi, Don Giovanni, è già sprofondato all’inferno. E a raccontare il terribile evento c’è, solo e comprensibilmente tramortito, il suo fedele servitore, Leporello.

Sul palco è ora serenità e pace, e ai presenti – “brava gente” – non resta che rammentare l’”antichissima canzon”: “Questo è il fin di chi fa mal, questo è il fin di chi fa mal”.

Cala il sipario, si spengono le luci: il teatro adesso è vuoto, lo spettacolo è finito. Ma chi conosca anche solo sommariamente i contenuti e la genesi di questa grande opera mozartiana, sa che laggiù, da qualche parte dove il protagonista è appena sparito, qualcosa di Don Giovanni vive ancora. Vivono ancora la sua natura demoniaca e la sua ostinazione sovrannaturale, le quali, alla fine di ogni rappresentazione, tornano in vita puntuali per insinuarsi prepotentemente nei pensieri degli spettatori.

Il Don Giovanni o sia il dissoluto punito di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) – “dramma giocoso” in due atti di Lorenzo da Ponte (1749-1838) – andò in scena per la prima volta a Praga il 29 ottobre del 1787, allo Stavovske divadlo (Teatro degli Stati generali), a due passi da quella via Celetnà lungo la quale, ossessionato dai suoi “fantasmi”, si sarebbe aggirato un secolo dopo il giovane Kafka.

Il 17 gennaio di quello stesso anno, ospite del conte Thun, Mozart era già stato nella capitale boema per dirigere un’altra sua opera - anch’essa su libretto dell’abate da Ponte -, opera rappresentata per la prima volta assoluta a Vienna il primo maggio 1786 e che a Praga, con la compagnia italiana dell’impresario Pasquale Bondini, già da qualche mese otteneva un successo strepitoso, se è vero che la gente comune continuava a ripeterne il motivo dappertutto e i migliori maestri ne improvvisavano trascrizioni per pianoforte e strumenti a fiato: si trattava delle Nozze di Figaro.

Comincia da qui il lungo cammino che conduce diritto al Don Giovanni, giacché il soggiorno praghese non valse a Mozart solo l’entusiasmo senza limite dei praghesi e un compenso di mille fiorini, ma, soprattutto, l’ambita committenza di una nuova opera. All’abate da Ponte, come era già accaduto per il “Figaro”, toccò la scelta dell’argomento, e anche questa volta l’astuto poeta vide giusto rifacendosi ad un testo del Bertati intitolato “Don Giovanni tenorio o il Convitato di Pietra”, che affondava però le sue radici nella Spagna del ‘600.

La leggenda del Don Giovanni ha il suo originale nell’opera spagnola “Burlador de Sevilla” (1630) di Tirso de Molina - al secolo frate Gabriel Tellez - ma s’è ripetuta nei secoli passando per Moliére, Goldoni, lo stesso Bertati ed altri. Quando Mozart e da Ponte presentarono il “loro” Don Giovanni a Praga, dunque, proprio nuovo l’argomento non era: nei teatri di mezza Europa, già da tempo la gente aveva imparato a giudicare le “donnesche imprese” del signorotto Don Giovanni, il ruolo subalterno del suo fidato servo Leporello, l’amore disperato di Donna Elvira per Don Giovanni, la semplicità bucolica di Zerlina e Masetto, la determinazione di Donna Anna contrapposta alla mediocrità del suo promesso Don Ottavio e, soprattutto, la forza celeste che anima la statua del Commendatore, padre di Donna Anna, quando torna dall’aldilà per spedire all’inferno Don Giovanni, il suo assassino. E tutti sapevano che la vicenda si svolgeva a Siviglia, nel secolo XVI. Ma per quanto l’argomento nuovo non fosse, il successo fu senza limiti.

In verità, oltre al fiuto proverbiale di da Ponte nel modellare il carattere dei personaggi, fu un altro l’elemento che fece, e continua a fare ancor oggi la differenza tra il Don Giovanni che andò in scena a Praga quella sera d’ottobre del 1787 e tutti i precedenti: la Musica.


La musica del Don Giovanni di Mozart: una leggenda almeno quanto l’opera stessa, a cominciare dall’ouverture.

Alla fine di agosto o ai primi di settembre, quando è più probabile che Mozart lasciò Vienna per mettersi in viaggio verso Praga, quasi certamente il Maestro doveva avere ultimato il grosso della partitura dell’opera: per certo mancava comunque l’ouverture, che, secondo un’abitudine ormai acquisita da tempo, Mozart componeva solo la notte precedente la prima delle sue opere.

Fu così che l’ouverture del Don Giovanni vide la luce tra le mura della casa “I tre leoni”, dove Mozart e la moglie alloggiarono durante il loro soggiorno praghese, e pare addirittura che, avendo il musicista terminato di scrivere l’ouverture solo la mattina del 29 ottobre, l’orchestra non ebbe il tempo di provarla, sicché dovette eseguirla per la prima volta assoluta la sera stessa della prima.

In realtà, è più verosimile che Mozart abbia composto l’ouverture la notte tra il 27 e il 28 e che l’orchestra abbia avuto quindi modo di suonarla nel corso delle prove generali, che ebbero luogo il 28 ottobre, alla vigilia della prima rappresentazione.

Ai praghesi che in quella sera di fine ottobre occuparono le confortevoli poltrone del Teatro degli Stati generali, splendente al suo interno di blu, bianco e oro tipici della migliore tradizione neoclassica, fu dato di assistere ad un evento senza precedenti: l’azione, l’eros, la passione, la forza, la giustizia sovrannaturale, tutti gli elementi costituenti la trama, insomma, diventare essi stessi “musica”. E in una di quelle poltrone, impegnato a meditare su quanto di straordinario stava realizzandosi all’interno del teatro, pare sedesse, tra gli altri, uno spettatore d’eccezione, uno straniero giunto apposta dalla polacca Duchov, il più vicino al mito di Don Giovanni: l’illustre Giacomo Casanova.

Alcuni giorni prima, quasi sicuramente Mozart e il libertino veneziano avevano avuto modo di conoscersi, probabilmente alla Bertramka, la deliziosa villa dei coniugi Duschek - in quella campagna che è oggi la periferia di Praga - dove il Maestro si recò spesso insieme a da Ponte per incontrare i cantanti ed apportare gli ultimi aggiustamenti alla sua opera.

Non sappiamo cosa si dissero, né quale sia stato il parere di Casanova sul grande capolavoro mozartiano, ma è assai poco verosimile, come invece qualcuno sostiene, che proprio in quell’occasione il famoso libertino abbia collaborato alla revisione del libretto dell’opera. Vi mise mani, semmai, solo qualche tempo dopo - come dimostrerebbero due fogli ritrovati tra le sue carte - per portare una variante alla scena nona del secondo atto, e forse proprio a Duchov e non a Praga, nella biblioteca del castello del conte Waldstein, dove ormai da tempo il grande amatore, ridotto a modesto “bibliotecario”, aveva spento i suoi ardori. Ma nulla di più preciso sappiamo in proposito.

Quel che è certo è che, quel lunedì d’ottobre, inquietanti pensieri dovettero turbare la mente di Casanova alla fine della rappresentazione. Cosa voleva significare, ad esempio, nel finale, l’irrompere sulla scena dell’enorme statua di pietra del Commendatore – questa specie di “sbirro sovrannaturale”, per dirla con Mila – proveniente direttamente dall’aldilà per spedire all’inferno Don Giovanni? E le trombe, le trombe che accompagnavano in modo tragico e impietoso lo sprofondare del protagonista…

Certo non accadde, quella sera, quanto sarebbe accaduto ventitré anni dopo a Berna, quando, nel 1810, nel corso di una rappresentazione dell’opera, ai sei diavoli scritturati per la scena finale se ne aggiunse, all’insaputa dei rimanenti, un settimo, procurando tra gli attori il panico generale con conseguente morte di due di loro; e, forse a causa dei limiti tecnici dello Stavovske divadlo, o per precisa scelta dell’allestitore Domenico Guardasoni, quella sera mancò probabilmente anche il fuoco, che invece sarebbe stato, nei successivi allestimenti del Don Giovanni, specialmente in epoca romantica, il grande protagonista di quell’azione così tragica.

Eppure, il suo effetto sugli spettatori quella scena dovette averlo comunque: il protagonista che si dibatte disperatamente prima di calare all’inferno e che, anche in un momento così estremo, non si pente della sua condotta e preferisce piuttosto “andarsene” tenendo fede ai suoi principi.

* * *

“Questo è il fin di chi fa mal, questo è il fin di chi fa mal”: ma quali sono le colpe di Don Giovanni, che male ha mai fatto per meritare una fine così apocalittica?

Per tutto lo svolgersi dell’opera, direttamente o indirettamente Don Giovanni domina la scena e dà vita alla scena: è l’istinto di vita che si contrappone all’istinto di morte, è Eros che si contrappone a Thanatos. Pian piano impariamo a riconoscere in lui l’astuzia, il cinismo, l’arte del grande seduttore, la forza. Solo in un caso sul personaggio di Don Giovanni si riflette un’ombra sinistra: è all’inizio, quando ferisce a morte il Commendatore intervenuto per difendere l’onore della figlia dalle sue insidie. Ed è questa l’unica, imperdonabile colpa di Don Giovanni: essere giunto ad uccidere, aver osato tanto pur di realizzare i suoi progetti

“Don Giovanni è la terra senza cielo”, ha scritto ottimamente Giovanni Macchia, ed è proprio da un regno a lui così lontano, il cielo appunto, che gli giunge il colpo di grazia. Non saranno, infatti, gli “umani” Anna, Ottavio, Elvira, Zerlina, Masetto, lo stesso Leporello, che pure, ciascuno a suo modo, vorrebbero vederlo morto, a sbarazzarsi di lui, di lui creatura “sovrumana”, ma sarà invece proprio colui che egli ha ucciso e della cui memoria si è preso gioco con sacrilego cinismo: il Commendatore, il quale, incarnando le sembianze di una statua di pietra, sul finire dell’opera torna in vita e si reca a cena da Don Giovanni per portare a compimento la sua missione celeste.

Non sappiamo quali sentimenti abbia provato Mozart nello scrivere la musica per quella scena: scena apocalittica, non c’è dubbio, drammatica ma al tempo stesso giocosa, con Leporello bocconi che trema sotto l’enorme tavola imbandita per la cena e Don Giovanni solo a fronteggiare la sinistra statua di pietra; col Commendatore che ordina al suo assassino di pentirsi e questi che gli dà del “vecchio infatuato”, e così fino al “no!”, deciso, irremovibile del protagonista. Don Giovanni non si pente, neppure in punto di morte, ed allora ecco levarsi da dietro le quinte, impietosamente il coro:

“Tutto a tue colpe è poco.
Vieni: c’è un mal peggior!”,

e poi, finalmente, il fuoco – quel fuoco che Mozart e da Ponte prescrissero nella didascalia dell’opera ma che quasi sicuramente non fu possibile portare sulla scena a Praga -: è il momento in cui il palcoscenico si squarcia e Don Giovanni cala all’inferno.

Non sappiamo, forse non sapremo mai quale ondata di emozioni travolse Mozart – lui che si lasciava prendere così facilmente dalle emozioni! – mentre componeva la musica per quel finale. Sappiamo, però, che non riuscì a fare a meno di inserire nella partitura le trombe – solenni, purificatrici, al di sopra di tutti gli altri strumenti.

Solo in apparenza, allora, quel 29 ottobre del 1787 allo Stavovske divadlo mancò il fuoco: le trombe che accompagnarono la fine di Don Giovanni furono esse stesse “fuoco”. E tornano ad esserlo anche ai nostri giorni, ad ogni rappresentazione, più di quell’altro fuoco che, grazie ai progressi della tecnica e degli effetti speciali, oggi non è difficile produrre dal vivo sulla scena. Sono le Trombe del Giudizio, che testimoniano in tutta la loro solennità la condanna senza scampo che attende Don Giovanni.

Così laceranti, così devastanti il Maestro le avrebbe riscritte solo un’altra volta, quando, prossimo alla morte, volle che accompagnassero il coro del “Dies Irae” nell’incompiuto Requiem K.626.

domenica 22 marzo 2009

La scienza, il suono, l'inglese e Lord Ringwood


LA SCIENZA, IL SUONO, L'INGLESE e "LORD RINGWOOD".

di Francesco Quartana


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La Musica di Osiride - …quasi un Prologo

"[...] Le stelle sbiadiscono come il ricordo nell'istante che precede l'alba. Il sole appare basso a est, dorato come un occhio aperto. Ciò che può essere nominato deve esistere. Ciò che viene nominato può essere scritto. Ciò che è scritto deve essere ricordato. Ciò che è ricordato vive. Nella terra d'Egitto va errando Osiride [...]”

dal “Libro dei morti degli antichi egizi”




Lord Carnarvon: «Riuscite a vedere qualcosa?»

Howard Carter: «Sì, cose meravigliose.»

da Howard Carter (1874-1939), “Tutankhamen”, Rizzoli (1973)




Egitto, Valle dei Re, 1323 a.c.
in un giorno di primavera

Il sole appariva basso a est, dorato come un occhio aperto, quando il sommo sacerdote entrò all’interno della tomba per controllare che nulla fosse stato dimenticato. Gli bastò dare una rapida occhiata ai vari locali per accorgersi che ogni cosa si trovava esattamente laddove era necessario che fosse.

Raggiunta la camera funeraria, si avvicinò con passo felpato allo scrigno di quarzite gialla e si chinò sui sarcofagi interni, ancora aperti, illuminandoli con la luce della lampada ad olio. Gli occhi della maschera luccicarono ed il blu lapislazzuli del contorno si accese come se il tutto vivesse di vita propria.

Non c’era ancora la piccola corona di fiori preparata dalla giovane vedova, che sarebbe stata deposta solo sopra una delle bare più esterne, ma ciò che si vedeva muoveva già a profonda commozione.

L’uomo rimase qualche istante in silenzio, disorientato dalla bellezza delle finiture e dai riflessi dell’oro, e non ebbe alcun dubbio: Osiride avrebbe accolto con somma gioia il Faraone fanciullo nel suo regno senza fine.

All’interno di quel luogo sacro, in cui ogni oggetto era stato posizionato non a caso, ma seguendo un disegno prestabilito, il sacerdote guidò l’erede del Faraone nella celebrazione del solenne “Rituale dell’apertura della bocca”, lo stesso a cui rimandavano gli splendidi dipinti alle pareti, in cui il defunto, raggiunto l’aldilà, veniva accolto dalla dea Nut e, successivamente, dal dio Osiride, pronto a cingerlo in un abbraccio di comunione.

Terminato quel rituale, l’uomo diede disposizioni affinché lo scrigno più interno – quello appunto di quarzite, contenente l’uno dentro l’altro i tre sarcofagi in cui era custodito il corpo del Re - venisse sigillato; poi si diresse verso l’anticamera.

Una statua di Anubis, posta all’ingresso, sembrava scrutarlo silenziosamente.

Muovendosi a stento tra gli innumerevoli oggetti già stipati nel locale, il sacerdote raggiunse quello che era sicuramente il più bello: un trono di legno ricoperto interamente d’oro e arricchito di intarsi in vetro e ceramica.

Se ogni parte di quell’oggetto era stata lavorata con cura, lo schienale in particolare rappresentava un ineguagliabile capolavoro di pittura ed oreficeria. Vi si vedeva raffigurata la Regina intenta a cospargere il corpo del Faraone, assiso di fronte a lei, di un qualche unguento o profumo. L’espressione dei loro volti era serena e felice, messa in risalto ancora una volta da un intenso blu lapislazzuli e dai benefici raggi di Ra che illuminavano la scena dall’alto.

L’uomo rimase qualche istante a contemplare quella meraviglia, quindi tracciò dei segni invisibili sulla seduta; successivamente, liberò dalla sottile copertura di lino, in cui erano avvolti, due oggetti che aveva portato appositamente con sé in quel luogo.

Due piccole trombe, una di bronzo e oro e l’altra d’argento, luccicarono alla debole luce della lampada, prima di venire deposte con cura proprio sopra lo splendido trono dorato: avrebbero guidato il giovane Faraone nel lungo e periglioso viaggio attraverso il Duat, dalle tenebre fino alla luce dell’aldilà e, quindi, al Giudizio del dio dei morti.

Ciò che bisognava fare, era stato fatto. Ciò che bisognava scrivere, era stato scritto.

Adesso sì, tutto era pronto e i musicisti potevano schierarsi per accompagnare con la Musica di Osiride le ultime operazioni di chiusura del sepolcro - il sacerdote sapeva che, da quel momento, non era più necessaria la sua presenza nella tomba.

Prima di abbandonare l’anticamera, tuttavia, l’uomo si diresse verso un giovane suonatore di sistro e gli consegnò tre piccole piramidi di legno ed una boccetta d’argento contenente un particolare unguento.

«Per chiudere la 'porta' che attira a sé l’energia del suono» - disse, gli occhi puntati con fierezza in quelli dell’altro, che già gli restituivano uno sguardo perfettamente complice.

Poi, senza aggiungere altro, socchiuse gli occhi e prese a salire lentamente i sedici gradini che lo avrebbero riportato all’aperto – sotto il cielo sacro d’Egitto, in una funesta alba di primavera…



- II -

Dalla parte dell’incertezza



«Il dubbio è uno dei nomi dell’intelligenza»

Jorge Luis Borges (1899-1986)


«Perché mai, o déi, due e due dovrebbe dar quattro?»

Alexander Pope (1688-1744)




Sosteneva, credo, Pierre Simon de Laplace (1749-1827), che Isaac Newton (1642-1727) era un uomo fortunato poiché in natura esiste una sola legge di Gravitazione Universale ed era stato proprio lui a scoprirla. Ed ancora, in apertura al suo famoso “Saggio filosofico sulle probabilità” (1812), che:

“un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se per di più fosse abbastanza profonda da sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti più grandi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi (…)”.

Stiamo parlando, ovviamente, di quella visione analitica ed estremamente razionale della Natura che viene ricordata ancor oggi col nome di “determinismo” laplaciano, e che rappresenta il leitmotiv che accomuna un po’ tutte le opere del grande studioso francese.

D’altra parte, quando all’inizio dell’Ottocento Napoleone chiedeva proprio a Laplace come mai, in un’opera monumentale qual era la sua “Meccanica celeste”, l’autore non avesse mai ipotizzato l’esistenza di Dio, Laplace rispondeva che per scriverla non gli era stato "necessario servirsi di quell’ipotesi…"


David Hilbert

Sosteneva - e qui sono sicuro - David Hilbert (1862-1943), sul finire dell’Ottocento, che la Matematica, ovvero tutto ciò che in essa si afferma potesse essere ricondotto semplicemente ad alcuni assiomi di partenza opportunamente scelti, sulla base dei quali poter dimostrare, appunto, ogni proposizione interna alla matematica stessa - anzi, direi che questo rimase il sogno più grande del padre del formalismo matematico.

Oggi sappiamo che tanto Laplace quanto Hilbert si sbagliavano. Tuttavia, anche se sono crollate sia le certezze del determinismo sia quelle del formalismo, direi che siamo immensamente più ricchi, essendosi aperti davanti a noi, d’un tratto, nuovi orizzonti di ricerca.

In Fisica c’è una differenza sottile, ma non banale, tra ciò che si definisce “Legge” e ciò che si definisce “Principio”.

Le leggi vengono provate in laboratorio e descrivono, in sintesi matematica, la natura di un fenomeno.

È una precisa “Legge”, ad esempio, quella che descrive il fenomeno per cui la Terra ruota intorno al Sole - la “Gravitazione Universale”, già ricordata più sopra - oppure quella che descrive in che modo due corpi puntiformi carichi si attraggono o si respingono – la “Legge di Coulomb”.

Un “Principio” è molto di più: è qualcosa che nessuno ha mai smentito e di conseguenza costituisce il fondamento di una determinata parte della Fisica.

Sono principi quello di “inerzia” oppure quello di “conservazione dell’energia meccanica” (sistemi conservativi); è un principio, ancora, quello secondo cui, se due corpi sono posti a contatto, il calore fluisce “spontaneamente” sempre dal corpo a temperatura maggiore a quello a temperatura minore, fino a che entrambi non si portano all’equilibrio termico (variante del “Secondo Principio della Termodinamica”).

Essi affermano proprietà così evidenti e sempre verificate - almeno nell’ambito della Meccanica classica - che sarebbe riduttivo definirli leggi.

Quasi sempre un principio definisce anche un limite imposto dalla natura.

Supponiamo di conoscere, ad un dato istante, la posizione esatta occupata da un elettrone che si stia muovendo in una regione dello spazio. In questo caso, l’esperienza prova che non potremo mai risalire, in alcun modo, alla velocità esatta della particella in quello stesso istante.

Viceversa, se conoscessimo in modo esatto la sua velocità, allora non riusciremmo mai ad ottenere alcuna informazione valida sulla sua posizione.

Tale limite, imposto dalla natura indipendentemente dall’abilità di chi conduce le misure, prende il nome di “Principio di indeterminazione” di Heisenberg (1927) e può essere considerato il punto di partenza della cosiddetta “Meccanica Quantistica”, ovvero quella parte della Fisica moderna che fonda su leggi probabilistiche e secondo cui, il semplice atto di “osservare” un certo fenomeno fisico produce effetti sul sistema osservato ed interagisce con esso.

Com’è facile intuire, si tratta di un principio assolutamente incompatibile col determinismo laplaciano e le cui conseguenze aprono scenari del tutto inimmaginabili in passato.


Se in ambito fisico lo spettro dell’incertezza si chiama “indeterminazione”, e fa capo al già citato principio di Heisenberg, in matematica prende il nome di “indecidibilità”, e fonda su uno dei più importanti teoremi che siano mai stati dimostrati.

Werner Heisenberg


In matematica, un “assioma” è un’affermazione che viene assunta vera senza che la si dimostri. Un teorema invece è un’affermazione a cui si giunge, per dimostrazione, partendo da alcuni presupposti iniziali considerati “veri” e a cui si dà il nome di “ipotesi” - si pensi ad esempio al celebre “Teorema di Pitagora”, che esprime una precisa proprietà relativa ai lati di ogni triangolo rettangolo…

Uno degli assiomi più noti è probabilmente quello delle parallele introdotto da Euclide nel III secolo a.c., sulla base del quale, in sostanza, due rette parallele non hanno punti in comune.

Questa affermazione non si dimostra e partendo dal suo contenuto si riesce a costruire quella che chiamiamo “Geometria euclidea”, spesso utile per una descrizione razionale del mondo visibile.

Se, però, si assume per assioma che due rette parallele abbiano un punto in comune, allora è possibile costruire una nuova geometria, non euclidea, altrettanto coerente e che trova notevoli applicazioni in diversi campi della scienza.

Quali che siano gli assiomi scelti su cui fondare una teoria matematica formale, è ragionevole pensare che essi debbano costituire sempre ciò che viene detto un “sistema coerente e completo”.

Affinché un sistema di assiomi sia coerente (non contraddittorio), deve accadere che, partendo dagli assiomi, non si giunga a dimostrare che una certa affermazione risulti contemporaneamente vera e falsa.

Affinché il sistema risulti, invece, completo, è necessario che ogni affermazione (o la sua contraria) all’interno della teoria costituisca un “teorema”, cioè un asserto “dimostrabile”.

Come già accennato, su tale presupposto di coerenza e completezza fondava appunto il più grande sogno di Hilbert: riuscire a trovare il migliore dei sistemi assiomatici possibili, cioè quel sistema di assiomi, coerente e completo, a cui ricondurre non una precisa teoria matematica, ma addirittura “tutta” la Matematica.

Prima di proseguire, prendiamo in considerazione la seguente affermazione, nota anche come paradosso di Epimenide, noto filosofo dell’antichità.

http://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso_del_mentitore

Epimenide afferma:

«Io sono un mentitore»

Se volessimo stabilire se tale proposizione è dimostrabile, sorgono problemi.

Ammesso che sia “vera”, infatti, avremmo che Epimenide starebbe affermando una cosa vera dichiarando, però, di essere uno che mente, e dunque ci sarebbe un’evidente contraddizione.

D’altra parte, l’affermazione non può essere neppure “falsa” (il che equivarrebbe ad ammettere che è vera la sua contraria), poiché, in questo caso, avremmo che Epimenide sarebbe uno che dice il vero, ma il suo affermare di essere un mentitore porgerebbe ancora una volta una contraddizione.

Quella appena considerata è un esempio di proposizione “indecidibile”, cioè una proposizione della quale, se riuscissimo a dimostrare che è vera o che tale è la sua contraria, avremmo in ogni caso una contraddizione, con conseguente perdita di coerenza del sistema in cui sia stata definita.



Kurt Godel e Albert Einstein

L’esistenza di tali proposizioni costituì motivo di grande imbarazzo per i matematici di fine Ottocento, ma all’inizio del nuovo secolo fu anche il punto di partenza degli studi di Kurt Gödel (1906-1978), un giovane matematico austriaco autore di un teorema – in realtà due teoremi, il secondo ancora più destabilizzante del primo - tra i più straordinari della letteratura scientifica di ogni tempo.

Cerchiamo di capire il perché.

Supponiamo, per un attimo, di essere riusciti a costruire un sistema formale di assiomi matematici che fondi sulla coerenza, cioè un sistema che, se si utilizzano le regole della logica, non consenta di provare che una qualche affermazione interna al sistema è contemporaneamente vera e falsa.


Ebbene, il “Teorema di incompletezza” di Gödel (1931) stabilisce che un tale sistema non potrà mai essere “completo”, il che equivale a dire che esisterà sempre, all’interno del sistema stesso, almeno un’affermazione “indecidibile”, cioè un’affermazione “vera” e pur tuttavia non dimostrabile!

Ma la questione è ancor più sottile.

Se volessimo aggirare l’ostacolo decidendo di elevare ad assioma tale affermazione (assumendo vera, indifferentemente, essa o la sua contraria), in modo da non doverla più dimostrare (si ricordi che un assioma è, per definizione, un’affermazione vera che non si dimostra), il nuovo e più ampio sistema che verremmo così a costruire porterebbe nuovamente, al suo interno, almeno una proposizione indecidibile.

Si tratta di un risultato eccezionale, la cui importanza non poteva essere colta e accettata rapidamente dalla comunità scientifica del tempo. Occorreva un sacrificio: bisognava voltar pagina e diventare improvvisamente adulti, abbandonando per sempre un sogno – quello di Hilbert – assolutamente irrealizzabile.

Malgrado gli ostracismi iniziali, alla fine anche i più conservatori dovettero arrendersi all’evidenza dei fatti e riconoscere il genio di Gödel. Quest’ultimo, nel 1978, ormai malato di mente, si sarebbe lasciato morire di denutrizione in quanto convinto che qualcuno avesse intenzione di avvelenarlo.

La grandezza del suo teorema, naturalmente, è sopravvissuta. E per l’enorme contributo che il suo autore ha dato alla Matematica, all’inizio del nuovo millennio, non a caso, Time ha indicato proprio in Kurt Gödel “il matematico più rappresentativo del ventesimo secolo”.

Il “Principio di indeterminazione” di Heisenberg ed il “Teorema di incompletezza” di Gödel rappresentano due dei più importanti risultati della conoscenza umana. Il primo è appannaggio della Fisica, l’altro della Matematica.

Entrambi, se da una parte hanno aperto una voragine in ambito scientifico mostrando l’impossibilità di risolvere in positivo la cosiddetta “Crisi dei Fondamenti”, dall’altro hanno creato nuovi campi di indagine e dato vita, soprattutto, ad un nuovo modo di pensare.

Faremo bene a ricordarcene tra un attimo, quando prenderemo in considerazione i fenomeni connessi col suono e la sua percezione…




- III -

“Provando e riprovando”




«Ogni grande progresso scientifico è scaturito da un nuovo atto d'audacia dell'immaginazione»

John Dewey (1859-1952)



«La mente che si apre ad una nuova idea non torna mai alla dimensione precedente»

Albert Einstein (1879-1955)